C’è qualcosa di paradossalmente vitale in Le ultime parole famose. Il nuovo format Netflix, inaugurato a ottobre 2025 con un episodio dedicato a Jane Goodall, morta appena due giorni prima, riesce a trasformare l’idea stessa di intervista — ormai genere consunto — in un’esperienza quasi mistica.
Guardarlo significa ascoltare un essere umano mentre si congeda dal mondo, eppure sentirlo più vivo che mai. È un’ora di televisione che non assomiglia a nulla di quanto siamo abituati a vedere oggi: nessuna clip, nessun montaggio emotivo, nessuna colonna sonora invasiva. Solo due persone che parlano. E, alla fine, una che resta.
In un’epoca ossessionata dal presente continuo, questa serie — adattamento del format danese Det Sidste Ord — è una piccola rivoluzione: una riflessione pacata e profonda sulla fine, ma anche sulla permanenza del senso. Un dialogo con la morte che diventa una lezione di vita.
Il primo episodio, dedicato alla leggendaria etologa britannica, è insieme un testamento e una dichiarazione d’amore alla curiosità, al dubbio, alla speranza. Ed è difficile non commuoversi di fronte a quella voce ferma e gentile che ci invita, con semplicità, a non arrenderci mai.
Le ultime parole famose: un format che nasce dal silenzio
L’idea è nata in Danimarca, nel 2020, grazie a Mikael Bertelsen, giornalista e conduttore televisivo, come racconta bene questo articolo del New York Times. Dopo la morte improvvisa di un suo intervistato, Bertelsen cominciò a riflettere sul senso delle parole lasciate indietro, e sul fatto che la televisione — nata per essere effimera — potesse invece custodire memoria. Così nacque Det Sidste Ord (“L’ultima parola”), programma cult della tv pubblica danese.
Interamente costruito su un paradosso: intervistare persone sapendo che l’intervista sarebbe stata trasmessa solo dopo la loro morte. Niente fronzoli, nessun archivio d’immagini, nessuna colonna sonora. Solo un essere umano che parla al futuro.
Quando Netflix ha acquisito i diritti internazionali, il produttore Mikkel Bondesen e Brad Falchuk hanno scelto di mantenere intatta quella purezza originaria. Le interviste, lunghe circa quattro ore e ridotte a sessanta minuti, vengono custodite in un archivio segreto, oggi depositato al John F. Kennedy Center for the Performing Arts. Solo dopo il decesso del protagonista, l’episodio viene pubblicato.
È come aprire una capsula del tempo, o leggere una lettera ritrovata in una bottiglia. Il risultato è un cortocircuito tra tempo e verità, e un’esperienza sospesa: un presente che parla da un altrove, in bilico tra la vita e la memoria.
Brad Falchuk e l’arte dell’ascolto
Falchuk — coautore di Glee, American Horror Story, American Crime Story, Monster e Pose insieme a Ryan Murphy, con cui si era fatto le ossa come co-sceneggiatore di Nip/Tuck — in questo progetto cambia completamente registro. Scompare dietro la scena, rinuncia alla costruzione, alla drammaturgia, al ritmo frenetico della serialità americana. Qui è soltanto un uomo che ascolta. La sua voce è calma, le domande sono semplici, quasi ovvie. È discreto, ma coinvolto. Profondamente empatico. Chiaramente ama l’intervistata, la rispetta moltissimo. È curioso, mai invadente. Genuino nelle sue reazioni.
Lontano dalla spettacolarità persino estrema a cui ci ha abituato con Ryan Murphy, Falchuk si rivela un intervistatore sobrio e compassionevole. La sua presenza è quella di un traghettatore — “portiamo queste persone attraverso la soglia della morte”, ha detto — e la sua voce, spesso spezzata da un silenzio, diventa lo spazio in cui l’altro può respirare.
Le telecamere, tutte controllate a distanza, eliminano la presenza fisica della troupe. Non ci sono tecnici in sala. Chi, da remoto, controlla le riprese non può ascoltare, né essere visto dalla coppia. La stanza è costruita come un limbo: colori caldi, luci basse, un’atmosfera che rimanda all’idea di un aldilà terreno. La regia è invisibile, la struttura è quella di una confessione intima.
Falchuk, da marito di Gwyneth Paltrow e veterano del sistema hollywoodiano, conosce bene i meccanismi della celebrità. Gli schermi dietro cui figure così amate si trincerano. E sa quando tacere. Il suo tocco è discreto, ma decisivo. Rende possibile il miracolo più raro della televisione contemporanea: l’autenticità.
Jane Goodall, la donna che parlava agli scimpanzé
Poi c’è Jane Goodall. Novantun anni, una vita spesa tra gli scimpanzé della Tanzania, un volto che sembra scolpito nel vento dell’Africa. Le ultime parole famose le offre il palcoscenico più giusto: quello di un silenzioso ascolto.
Nata a Londra nel 1934, Jane Goodall ha rivoluzionato il modo di pensare la natura. Non scienziata di formazione accademica, ma esploratrice per vocazione, negli anni Sessanta arrivò in Tanzania e scoprì — osservando il celebre scimpanzé da lei ribattezzato David Greybeard — che gli animali potevano costruire strumenti, provare emozioni, sviluppare relazioni sociali complesse. Da allora, la sua figura ha incarnato una scienza empatica, capace di coniugare osservazione e compassione. Negli anni, Goodall è diventata simbolo di una nuova etica ambientale: non la dominazione dell’uomo sulla natura, ma la cooperazione tra specie.
In Le ultime parole famose, la vediamo con il suo inconfondibile sorriso e la calma di chi non teme più nulla. Accanto a lei, Mr. H., la scimmietta di peluche che da decenni la accompagna nei viaggi. Sorride, beve un sorso di whisky (“per ravvivare la voce”), e con la stessa grazia con cui ha parlato agli scimpanzé per una vita, ora parla a noi. Racconta l’umanità con uno sguardo pieno d’amore. Ma anche di disincanto. “Ci sono persone che vorrei spedire sul pianeta di Musk”, dice ridendo. “Trump, Putin, Xi Jinping… e Musk come anfitrione”.
L’intervistatore le recita la sintesi della sua vita. Dei suoi traguardi. Dei suoi successi. “E ora il tuo lavoro è finito. Come ti fa sentire tutto questo?”. “Rafforza la mia convinzione di essere stata messa al mondo con uno scopo e per una ragione”.
Le ultime parole famose: un’intervista tra la vita e la memoria
L’episodio dedicato a Jane Goodall dura cinquantacinque minuti, ma sembra dilatare il tempo. L’intervista si svolge come una messa laica. Falchuk guida, ma lascia spazio: chiede della morte, della fede, del dolore. Lei risponde con calma, evocando la madre, il cane dell’infanzia, gli scimpanzé perduti.
Parla di un mondo malato, “un’epoca oscura”, ma anche di un dovere di fiducia. Racconta la scoperta di David Greybeard, il primo scimpanzé da lei osservato mentre usava strumenti, e ammette di aver provato un’emozione quasi religiosa. Discute della responsabilità personale: “Non puoi cambiare tutto, ma puoi cambiare qualcosa”.
Tra un aneddoto e un silenzio, il montaggio lascia filtrare la sensazione di assistere a qualcosa d’irreplicabile — una conversazione che attraversa il confine tra la vita e la memoria. E mentre il tempo scorre, tutto sembra rallentare. Come se il mondo, per un’ora, si ricordasse che esiste ancora il rispetto.
Lo spettatore non ha la sensazione di guardare un programma, ma di assistere a un incontro privato. È televisione che riporta l’umanità al suo punto di partenza: due persone sedute dentro un cerchio di luci basse. Una che domanda e ascolta, l’altra che racconta una lunga vita. Lunghissima. Ricchissima. Esemplare.
Il commiato di Jane Goodall: una benedizione laica
Alla fine, Falchuk si alza e lascia la stanza. Jane resta sola davanti alla camera, come davanti a un confine invisibile. È il momento più intenso: quello delle ultime parole famose, appunto. Il messaggio finale che vorrà che il mondo ascolti, ora che è morta.
“Guardo al mondo che ho lasciato indietro. Che messaggio vi lascio? Voglio che capiate che ognuno di voi ha un ruolo da giocare”, dice con voce ferma. “Potete non saperlo, potete non trovarlo, ma la vostra vita ha un significato, e siete qui per una ragione. Se volete salvare ciò che è ancora bello nel mondo, pensate alle azioni di ogni giorno. Non arrendetevi. C’è un futuro per voi.”
È un addio, ma suona come un inizio. Il suo discorso finale è sobrio, luminoso. Nessun sentimentalismo, solo una verità essenziale: la speranza non è un sentimento, è una scelta quotidiana. È una benedizione laica, una carezza planetaria che supera l’aneddoto biografico e diventa messaggio universale. La serie, nel suo impianto essenziale, trova qui il suo senso più alto: trasformare la morte in un atto di condivisione. Non spettacolo del lutto, ma rito dell’ascolto – trasmissione di sapere.
Un ultimo sorso di whiskey, le luci si abbassano, la musica accompagna il nome e le date: Jane Goodall, 1934 – 2025. Una nascita, una morte – ma soprattutto, la vita che c’è in mezzo.
Televisione, memoria, lentezza – e le ultime parole famose
C’è qualcosa di profondamente umano in Le ultime parole famose: un modo nuovo, e al tempo stesso antico, di pensare la televisione come archivio dell’anima.
In tempi di iperproduzione e di memorie effimere, questo format restituisce alla parola il suo peso e al silenzio la sua forza. È un gesto controcorrente, che sceglie di sottrarre invece che aggiungere. In un mondo che teme la fine, accetta la morte come parte del racconto.
Ogni episodio sarà diverso, ma se il primo — quello con Jane Goodall — è indicativo, Le ultime parole famose si candida a essere una delle esperienze televisive più radicali degli ultimi anni. Perché non cerca lo scandalo né l’emozione facile: cerca la verità, e la trova proprio nel punto in cui il linguaggio di solito si ferma. È un archivio di umanità, una memoria condivisa, un invito a guardare chi se ne va per imparare, ancora una volta, come restare.
La frase pubblicata in esergo aveva esplicitato la sua promessa: “Quando qualcuno di importante muore, tutto ciò che vorresti sarebbe solo un altro po’ di tempo insieme”.
Le ultime parole famose non è solo una serie documentaria. È un esperimento che sembra nato per contrasto: in un’epoca che cancella tutto, sceglie di custodire. In un presente che corre, si ferma. Per dar vita a una nuova forma di memoria collettiva.
Il grande racconto della morte: Six Feet Under
Un altro grande naturalista e divulgatore: Life in Color

















