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The Residence, un Cluedo alla Casa Bianca

Otto eleganti puntate tra giallo retrò e commedia nera, con tanti personaggi, situazioni, dialoghi... troppi?

di Livio Pacella
05/10/2025
in Articoli
cover di The Residence per Mondoserie
231
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The Residence (Netflix, 2025) è una serie televisiva americana creata da Paul William Davies (For the People) e prodotta da Shonda Rhimes (Le regole del delitto perfetto, Scandal). Poiché, dopo 8 episodi di lunghezza variabile (dai 50 ai 90 minuti!), la storia si conclude, e dato che dopo questa prima stagione è stata cancellata, The Residence può essere a tutti gli effetti considerata una miniserie.

Divertente pastiche tra il giallo retrò alla Agatha Christie e la black comedy, questa serie ha uno dei suoi punti forti nell’ambientazione: la Casa Bianca. Che viene dettagliatamente sezionata, mostrata e perlustrata come una casa delle bambole. Soprattutto per quel che riguarda la zona, per l’appunto, residenziale. Non a caso la storia è tratta dal romanzo The Residence: Inside the Private World of the White House di Kate Andersen Brower. Libro, a sua volta, basato sulle testimonianze di decine di membri del personale (cuochi, camerieri, giardinieri ecc) che lavorano dietro le quinte di quella che è, al contempo, abitazione privata, sede del’esecutivo, luogo cerimoniale tra i più famosi – e impegnativi – al mondo.

Nella misura in cui la storia dà voce ad una servitù, dalla quale ci si aspetta – anzi, si pretende – che passi inosservata, The Residence ammicca non poco a Downton Abbey. Innanzitutto per la separazione spaziale e sociale tra ospiti, padronanza e servitù, a sua volta strutturata in ulteriori gerarchie. Tutte guidate e coordinate dalla figura del ‘White House Chief Usher’, quello che un tempo (non più?) era, dalle nostre latine parti, il maggiordomo: nel mio etimo frettoloso il maior domus, ovvero la figura più importante nella gestione della casa. 

The White House Chief Usher

Nello specifico di The Residence, lo Chief Usher è A. B. Wynter (Giancarlo Esposito – Breaking Bad, Kaleidoscope), che da decenni supervisiona qualsiasi operazione – dalla preparazione di un ricevimento diplomatico allo sturamento del cesso di un ospite. Tutti essendo ospiti nella Casa Bianca. Il che significa che, per quante famiglie presidenziali abbiano lì alloggiato nel corso dei diversi mandati, il signor Wynter, con buona parte dei suoi sottoposti, era sempre presente. Ed è proprio lui, che conosce spazi e usanze della White House meglio di chiunque altro, ad essere rinvenuto cadavere. Durante una cena di Stato in onore della delegazione australiana, presenti le massime cariche dei due paesi, nonché Hugh Jackman (sempre e solo evocato) e persino, ad esibirsi, Kylie Minogue (for real!). 

Il cadavere di Wynter viene ritrovato in una delle 132 stanze della mansion, in una serata con 157 tra personale e invitati. Quel che si dice una situazione decisamente ‘sovraffollata’. Siamo quindi alle prese con una classica ‘cena con delitto’ su grande scala. Anzi, su scala presidenziale. I riferimenti e gli ammiccamenti, tutti teatralmente esibiti, si sprecano. A cominciare dai classici alla Poirot per arrivare al cult Signori, il delitto è servito (Clue), trasposizione cinematografica del Cluedo con Tim Curry. Strizzando l’occhio a Clouseau, riecheggia poi la più recente saga dell’ispettore Blanc Benoit (Daniel Craig), Knives Out.

L’eccentrico e geniale detective protagonista di The Residence è Cordelia Cupp (Uzo Aduba – Orange Is the New Black), anche lei appartenente alla grande famiglia degli investigatori consulenti al servizio della polizia – in questo caso il dipartimento di Washington DC – che dal Dupin di E.A. Poe, passando per Miss Marple e Sherlock Holmes, arriva a Monk e al già citato Benoit.

The Residence: Cordelia Cupp

Cordelia Cupp,  “la migliore detective al mondo”, è una singolare donna di colore di mezza età, maniaca del birdwatching. Che non solo offre innumerevoli spunti comici – spesso e volentieri sembra abbandonare le indagini per avvistare, con tanto di binocolo, gli uccelli del giardino della Casa Bianca – ma che in realtà rappresenta perfettamente il suo stesso approccio all’investigazione. Cordelia è infatti paziente e attenta ad ogni dettaglio, che non manca di segnare puntualmente sul suo quadernino, esattamente come ogni volatile che riesce a vedere.

Questa detective, sempre sopra le righe nonché praticamente allergica alla tecnologia, incurante delle pressioni che le vengono fatte dalle principali agenzie – FBI, CIA, NSA ecc –  si muove all’interno della White House in modo estremamente pacato, per non dire straniante. In un certo qual modo, proprio come nel birdwatching, Cordelia attende pazientemente che il mistero si riveli da sé. Così, tenendo prigioniere più di 150 persone nella Casa Bianca, la Cupp interroga tutti, uno ad uno, usando un’inquisitoria fissità di sguardi e silenzi, che si rivela un metodo a quanto pare infallibile per mettere a disagio e quindi far cantare chiunque abbia davanti. Oppure si accascia stremata sul tavolo, esasperata dal sentire l’ennesima ridicola insulsaggine…

La sua memoria di ferro, e il suo insondabile sguardo critico nei confronti della fauna della Casa Bianca, la rendono simpaticamente cinica e sprezzante verso gli astanti, soprattutto se tendenti ad abusare della propria posizione di potere. A farle da Watson – o da Hastings -, vi è qui l’agente supervisore dell’FBI Edwin Park (Randall Park – Wanda Vision).

Un whodunit tra retrò e contemporaneità

Park, braccio destro di Cordelia in questa avventura, avrà un ruolo chiave nel racconto della prima parte dell’indagine stessa, durante un’interrogazione del Congresso, guidata dal senatore Aaron Filkins (Al Franken, attore comico ed ex senatore!), su cui si basa la complessa e articolata struttura narrativa della serie. Che si divide tra più binari temporali: quelli principali sono i flashback della fatidica notte, l’udienza del Congresso di alcuni mesi dopo, e la seconda e ultima parte dell’indagine – sempre all’interno della Casa Bianca.

Comincia già, da quanto precede, ad insinuarsi il sospetto che questo menù, nonostante la bontà degli ingredienti, sia forse troppo ricco. Tanto da rischiare di diventare stucchevole. E purtroppo è proprio così. Si ha spesso la sensazione, in questo whodunit tra retrò e contemporaneità, che sia tutto troppo: situazioni, dialoghi, personaggi, citazioni, colpi di scena e attese sovvertite… Si fa oggettivamente fatica a seguire indizi e balzi temporali nella miriade di racconti, bugiardi o maliziosamente sbadati, dei presenti. Siano questi il consigliere del Presidente Harry Hollinger (Ken Marino, Vinyl), che sembra avere tutte le ragioni per insabbiare lo scandalo, come continua ad insinuare, durante la seduta della Commissione, l’agguerrita senatrice Margery Bay Bix (Eliza Coupe – Community), o lo stesso Primo Ministro australiano Stephen Roos (Julian McMahon – Nip/Tuck). Per tacere del Presidente degli Stati Uniti gay Perry Morgan (Paul Fitzgerald – Veep), con tanto di compagno presidenziale al seguito. 

I comprimari sono davvero tantissimi, e molti di loro classicamente pittoreschi. Dallo chef austriaco-tedesco-svizzero (Bronson Pinchot – Ray Donovan) e dal trasandato fratello cleptomane del presidente (Jason Lee – My Name is Earl) all’assistente di Wynter Jasmine Haney (Susan Kelechi Watson – This Is Us)… Ognuno di loro ha naturalmente una valida ragione per aver voluto morto lo Chief Usher. Ed è proprio questa ipertrofica ridondanza a costituire una delle principali difficoltà della serie.

The Residence: birdwatching e Cluedo

L’effetto cumulativo tende via via a perdere potenza, disgregandosi in una indefinita moltiplicazione di dialoghi, svolte a sorpresa e sottotrame. Per quanto dannatamente elegante, l’ambizioso impianto stilistico tenderebbe a sfaldarsi, ahimè, in troppi volti, troppe parole… E, in sostanza, troppi episodi. Uhm. Ma sarà davvero tutto troppo? In realtà, dipende. Per alcuni il Cluedo è meccanico e noioso, per altri è un sublime rituale. La differenza, forse, sta tutta lì. The Residence è volutamente sfarzoso e retrò, confuso e raffinato, teatrale e ridondante. 

Innanzitutto, l’iniziale ritrovamento dell’impeccabile Chief Usher – che tutti vanno cercando da almeno un’ora, poiché responsabile del personale di servizio durante una disastrosa cena di Stato -, è una dichiarazione di intenti. Il pacato e più del solito rigido Wynter, altrimenti onnipresente, giace infatti cadavere nella sala da biliardo del secondo piano. Qualcuno nella villa è stato assassinato, e non dal maggiordomo. Poiché la vittima stessa è il maggiordomo. Questo l’incipit del divertentissimo rompicapo, per cui tutto lo staff della Casa Bianca – entourage presidenziale, CIA, FBI e addirittura la polizia forestale (sic) – entra caoticamente in allerta e in azione.

Ma la giurisdizione spetta alla ‘normale’ polizia di Washington, il cui capo decide da subito di affidarsi alla consulente investigativa Cordelia Cupp. La detective più famosa al mondo, come dicevamo, nonché ornitologa provetta. O, quantomeno, amante del birdwatching. Proprio così ci viene presentata la sua iconica figura, alle prese con un binocolo, a sera inoltrata, nel grande parco della White House. Un esercizio di pazienza, attesa e osservazione. Immersi in uno stato di concentrazione quasi meditativo, pronti a cogliere la minima vibrazione, il minimo segnale. Questa la sua peculiarità investigativa: attendere, con pazienza e prontezza, che sia la stessa realtà a disvelarsi, a smascherarsi. 

La Casa Bianca come Teatro dell’Assurdo

Una lunga attesa, lunga quanto una notte, lunga quanto la seduta di una commissione d’inchiesta del senato e, infine, lunga quanto la ripresa finale delle indagini in loco, dalla durata di poche ore. In questa lunga attesa la Casa Bianca diventa un teatro dell’assurdo, tra altezzosi e isterici chef, cameriere ubriache e ciarliere, goffi consiglieri, ospiti ninfomani e stralunati membri della famiglia presidenziale. Tutti ovviamente potenziali sospettati.

Tra questi pittoreschi personaggi, come in un ellittico balletto, si muove solennemente  l’outsider Cordelia, con arrogante e trasandata semplicità, incalzando poco a poco il ritmo della storia, e costringendo la sua apparente inconcludenza a dare la soluzione del rebus. L’intelligenza di questo pungente e sofisticato show, pur nella sua estenuante dilatazione spaziale e temporale, si manifesta anche attraverso l’accenno ad attualissime istanze: dai guru influencer al First Gentleman compagno del presidente omosessuale degli USA. Un tocco, questo, che tende sovente a ritrovarsi nelle produzioni targate Shondaland.

Ma, attenzione, l’attualità viene soltanto sfiorata in The Residence. Non diviene mai campo di battaglia vero e proprio. Non è la satira sociale la cifra stilistica di questa serie, sebbene l’ambientazione nella Casa Bianca, con tanto di netta divisione tra servitù e classe padronale, potesse ampiamente offrire il destro. La riflessione sul rapporto tra verità e rappresentazione e tra politica e spettacolo non è qui che una cornice narrativa, a dispetto della valenza simbolica del luogo in cui la storia si svolge. Il dietro le quinte della dimora più famosa al mondo viene dipinto con estrema leggerezza, tra ascensori, scale di servizio e piani interrati. E tra situazioni surreali e colpi di scena, il cui accumulo rischia di soffocare artificiosamente, restando incastrato nella propria stessa architettura.

Un puzzle con troppi pezzi?

Risulta da subito evidente che il mistero è secondario rispetto alla narrazione stessa. E va bene così, perché in questo senso The Residence si annuncia, nel bene e nel male, dichiaratamente così: non vuole essere altro. Dopo tre scene, si sa esattamente cosa si sta guardando. Persino le ripetizioni, inevitabili tra interrogatori, flashback e dialoghi, fanno orgogliosamente parte del gioco.

Anche il rocambolesco montaggio, diviso tra Casa Bianca e Senato (per tacer della casa sull’albero nella foresta), con il suo continuo avanti e indietro temporale, diventa volendo motivo di appesantimento e diluizione. Volendo, perché godersi The Residence significa accettare questo strano patto. Il patto di un giallo da camera di dimensioni spaziotemporali sproporzionate. Come un puzzle con migliaia di pezzi. Per alcuni è follia, per altri puro piacere. 

Non è un caso che l’ultimo episodio, per sua stessa ammissione, sia un lungo (un’ora e passa) e straordinario spiegone, come nel più classico dei finali alla Poirot. Che mette ordine alla sovrabbondanza di indizi e possibilità fin lì presentati. Troppi indizi, troppe stanze, troppi personaggi, troppe puntate? Questione di punti di vista, immagino. E, Cluedo a parte (non ci ho mai giocato), ad ogni modo l’assurdità degli eventi e la grandiosità del luogo in cui avvengono – la Casa Bianca – basterebbe, già così, a rendere The Residence un’imperdibile miniserie. Che a sua volta si perde tra giallo retrò e commedia nera.

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Tags: Casa Biancacommedia darkgiallo
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Livio Pacella [altrove Al Lecap o liviopacella]. Attore, autore, regista, filosofo ballerino, poeta maledetto, bohemien, da tempo impegnato nella stesura di "In Progress - a work", continua a vivere, tra lo stupore generale, al di sopra dei suoi mezzi.

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