Detective Monk, andato originariamente in onda su USA Network dal 2002 al 2009 e ora di nuovo disponibile su Sky, è un giallo a tinte comedy a carattere per lo più episodico, durato 8 stagioni per un totale di ben 125 puntate. Tra le bizzarre guest star, nel corso degli anni: John Turturro e Snoop Dogg.
Protagonista assoluto è Tony Shalhoub (vincitore di Emmy e Golden Globe per l’interpretazione) nei panni di Adrian Monk, un consulente investigativo della Omicidi di San Francisco. La peculiarità di questo investigatore – e dunque dell’intera serie – è senza dubbio il suo carattere ossessivo compulsivo, accompagnato dalla maggior parte delle fobie fino ad ora identificate dalla psichiatria: paura dei germi, della folla, del vuoto, dell’altezza, addirittura del latte…
Come si può vedere dalla primissima scena della serie, qui sotto.
L’origine delle fobie di Monk.
Con lui vi è sempre la figura femminile dell’assistente / infermiera (dapprima sarà il personaggio di Sharona a cui si avvicenderà, a metà serie circa, Natalie), nella duplice veste di “Watson” e di pragmatico contatto con la realtà. Il nostro detective è infatti tanto acuto nelle deduzioni quanto totalmente incapace di relazionarsi al prossimo: ricorrente in ogni episodio è il fazzolettino che lei deve porgergli dopo qualsiasi sua stretta di mano.
Senza la paziente mediazione della sua assistente, Adrian sarebbe semplicemente perduto. Rispetto però ad un bonario Watson, incapace di azzeccare una qualsiasi deduzione, la figura di Sharona/Natalie è molto più attiva e produttiva: è lei a dover agire per conto di Monk che ha persino il terrore, ad esempio, di camminare su una strada da lui ritenuta troppo polverosa.
Monk è diventato così a causa di un crollo psicotico, avvenuto in seguito all’omicidio della moglie, Trudy, l’unico caso che non riesce a risolvere. O che, meglio, riuscirà a risolvere solo nel finale di serie (tra i più visti nella storia della TV via cavo americana, con circa 9.400.000 spettatori).
Un incrocio tra Holmes e Clouseau…
La morte di Trudy avviene 3 anni e mezzo prima dell’episodio n.1: fino ad allora Adrian era un brillante e leggendario detective della Polizia di San Francisco. Ora invece è un incrocio tra Sherlock Holmes (qui la puntata del podcast di Mondoserie “Holmes e dintorni”) e l’ispettore Clouseau: la naturale antipatia che solitamente ispira il primo è quindi neutralizzata dall’estrema goffaggine del secondo. La sua sindrome sociopatica non ha alcun risvolto drammatico, anzi tende ad ispirare una profonda e segreta simpatia: è la parte, insita in ciascuno degli spettatori, che non sopporta l’insensato caos del mondo e assieme la continua e fastidiosa presenza degli esseri umani.
In Adrian Monk questi due aspetti sono portati all’estremo: egli sogna un mondo in cui tutto è ordinato secondo precise progressioni numeriche (niente di complicato, basta andare dall’uno al dieci) e in cui tutto è pulito e disinfettato. Un mondo in cui ogni parola, pronunciata correttamente, con un tono gentile e pacato e con buona dizione, ha sempre senso. In cui causa ed effetto dovrebbero susseguirsi in modo lineare e, nel caso si presenti una qualche molteplicità, questa venga regolata da una sorta di semaforo ontologico… Non potendo vivere in un tal paradiso cartesiano, Adrian è il tipo che ogni giorno passa l’aspirapolvere, e poi usa una spazzola per pulire l’aspirapolvere, e un’ultima per pulire la spazzola con cui ha pulito l’aspirapolvere.
In un certo senso Monk sarebbe l’uomo più ordinario della terra (nel senso pieno del termine), ed è proprio questa sua maniacale attenzione al dettaglio, a ciò che non quadra o non è al suo posto, a renderlo un genio senza pari, ovvero a permettergli di risolvere qualsiasi rebus un delitto gli metta davanti. Perché in questa serie, come in tante altre del genere, ogni delitto è il frutto di un elaborato piano di ingegno.
… con una nota di Colombo e Poirot.
“Ecco cosa è accaduto…” queste le parole con cui, alla fine di ogni episodio, ricostruisce la corretta dinamica degli avvenimenti, cosa che ricorda molto Colombo: e come in Colombo, anche qui il colpevole o è chiaro sin da subito o scoprirlo non è comunque il focus della narrazione. Del resto, altra cosa che richiama fortemente Colombo o La signora in giallo, la morte in Monk è totalmente sdrammatizzata, privata di qualsiasi carica emotiva e di qualsiasi pathos: ha, per capirci, la stessa valenza che ha nel Cluedo.
Un’ultima caratteristica che lo accomuna ai sopracitati Colombo e Jessica Fletcher, a cui qui aggiungeremo Poirot: Adrian Monk non usa pistole o coltelli, né tantomeno le arti marziali, per cui non c’è mai azione, almeno nel senso più solito di un classico poliziesco. Inseguimenti e compagnia bella, lontani dalla logica di adrenalina filmica, aderiscono qui alla linea grottesca della serie.
Monk e noi: le sue idiosincrasie, le nostre.
In sostanza Monk è uno dei detective più improbabili che vi siano: le sue manie e le sue fobie da un lato sono il motore risolutivo del giallo, dall’altro sono anche il motore comico della storia. Non si tratta semplicemente di vedere come Monk troverà il colpevole, ma come lo troverà nonostante il fatto che è Adrian Monk: un tizio il cui istinto sarebbe quello di pulire la scena del crimine da impronte e macchie di sangue, perché “sporcano” e le macchie di sporco sono intollerabili.
“It’s a jungle out there” canta Randy Newman nella bella sigla iniziale e questa è la chiave empatica con cui ci si lega a questa bizzarra figura di detective: un idiota geniale, come nel fondo tutti sappiamo e speriamo di essere. Idioti perché chiusi nel nostro particolare insensato mondo di idiosincrasie (e questa è una cosa di cui siamo tutti, chi più chi meno, consapevoli). Geniali perché, come Monk riesce a decifrare la realtà proprio in virtù delle sue idiosincrasie, speriamo questo possa valere anche per noi. Speriamo insomma che, nonostante le nostre paure e le nostre intolleranze, nonostante la nostra inadeguatezza nei confronti degli altri e della realtà, noi siamo in qualche modo giustificati ad essere come siamo.
Finché c’è Monk, il monaco che fugge da tutto e a cui niente può sfuggire, c’è speranza per la mediocrità di tutti.