Colombo o meglio, il Tenente Colombo – con la maiuscola perché proprio questo dice in un episodio essere il suo nome di battesimo: Tenente – è un’icona datata, eppure senza tempo. Datata, perché la primissima puntata va in onda nel lontano 1968 (!). Mentre il gran finale – l’episodio 69, l’ultimo – risale al 2003. Columbo (in originale) va dunque in onda dal 1968 al 2003, con una decina di anni d’interruzione, che vanno dal ’78 all’89. Senza tempo, dicevamo, e perché? Già, infatti, perché?
Innanzitutto è ancora in onda, e non nei palinsesti notturni bensì addirittura in prima serata nel digitale terrestre. Colombo è un classico, come il Commissario Maigret, come Poirot . Ma a differenza di questi ultimi due – entrambi godono di decine di rifacimenti tra cinema e serie tv -, non è un personaggio letterario che ha avuto, per l’appunto, decine di volti diversi. Colombo è Peter Falk, e ad un certo punto fu vero anche il contrario (Peter Falk rimase infatti a lungo ‘incastrato’ nel personaggio).
Il suo detective è memorabile: trasandato, strampalato, irritante e noioso come nessun’altro. Nel senso che lo show è noioso? Opinabile. No, intendo nel senso in cui il protagonista dà noia a chiunque decida di perseguire. Negli anni ’70, tra cinema e TV si impongono caratteri come quello di Kojak e de l’ispettore Callaghan. L’eroe diventa antieroe (vedi il nostro articolo Al di sopra della legge). Non Colombo, lui si limita a rompere i coglioni a forza di parlare, prendendo i cattivi per sfinimento.
Tra Dostoevskij e l’ospedale psichiatrico
Il Tenente Colombo è un detective della Squadra Omicidi del Los Angeles Police Department. Ha chiare origini italiane e, nonostante affermi di chiamarsi Tenente, in realtà sembra chiamarsi Frank – o così appare scritto in un suo documento d’identità, vagamente visibile in un’unica distratta inquadratura. L’idea originale di questo personaggio venne a due compagni di università (Richard Levinson e William Link), nobilmente ispirati nientemeno che dalla figura di Porfirij Petrovic, l’inquisitore di “Delitto e Castigo” di Dostoevskij. Ma qui siamo nella patinata Los Angeles, non v’è posto per Raskol’nikov e il suo sublime senso di colpa.
Qui il colpevole – che vediamo già nelle prime scene compiere l’omicidio – ha tutt’altre fattezze. Solitamente è assai benestante, di bella presenza, elegantemente vestito e dall’ineccepibile comportamento. Maschio, lavorativamente realizzato, fa parte della buona società, è molto intelligente, ironico e astuto. Generalmente il suo piano per compiere un omicidio e restare impunito è elaborato e sofisticato e ha richiesto una paziente e metodica preparazione. Se a tutto questo aggiungiamo che dall’altra parte c’è il nostro detective, che pare essere appena uscito da un ospedale psichiatrico e che fa domande e racconta aneddoti tra l’assurdo e l’incomprensibile, ci credo che l’assassino sia a buon ragione convinto di farla facilmente franca!
Da notare che il nostro amato (si fa per dire) e all’apparenza trascurato detective è sempre sacerdotalmente vestito allo stesso modo: stessa camicia, stessa giacca, stessi pantaloni, scarpe, cravatta… Qui ‘stesso’ significa che ogni volta l’attore indossava realmente i medesimi indumenti. E, soprattutto, stesso impermeabile beige. Quello con cui Peter Falk, che lo aveva acquistato a New York per due soldi, si presentò fatalmente sul set il primo giorno di riprese. E di cui riuscì a liberarsi solo nel ’92!, salvo doverne comprare subito dopo un altro identico.
Colombo, un proletario tra gli snob
L’antagonista, dicevamo, ovvero il colpevole, è di ogni episodio il fondamentale coprotagonista. E ogni episodio non è che un lungo, snervante, estenuante combattimento tra lui e Colombo. O, se volete, una partita a scacchi dove fin dall’inizio sappiamo perfettamente chi vince e chi perde. La particolarità di questo show poliziesco è che il delitto viene mostrato all’inizio di ogni puntata. Vediamo chi l’ha fatto, e come l’ha fatto. Ribaltando il classico schema del giallo deduttivo, in cui lo spettatore si interroga fino alla fine sul chi-è-stato (whodunit).
Di più, Colombo è un incallito fumatore di sigaro, più spesso di mozziconi di sigaro. Cosa che finisce quasi sempre con l’infastidire il suo interlocutore. Così come il suo soffermarsi su dettagli apparentemente irrilevanti, che finiranno naturalmente per smascherare e incastrare il sempre più allibito omicida upperclass. Dettagli appuntati su un taccuino logoro e stropicciato. Tutte le caratteristiche del Tenente stonano, devono stonare, con i raffinati ambienti in cui si svolgono gli incontri con il sospettato di turno.
Anche gli stralunati racconti del detective sulla moglie – che non viene mai vista (anche se si tenterà di creare una disastrosa serie con lei come protagonista, dal titolo La moglie di Colombo – o sul suo cane, un basset hound che risponde a tutti i comandi accucciandosi e che lui chiama semplicemente ‘cane’, fanno parte dell’armamentario innervosente di Colombo. Lui è sempre fuori posto nella lussuosa e patinata Los Angeles in cui muovono disinvoltamente i suoi killer. Tutto in lui, dall’involontario ma azzeccatissimo occhio di vetro di Falk alla vecchia e malandata Peugeot, concorre a farne un essere smaccatamente e veracemente proletario, in opposizione agli artefatti modi snob delle sue colpevoli prede.
Un’eroica e solitaria lotta di classe
Perché è anche una caccia quella che ci viene mostrata. Il Tenente del popolo fiuta fin dall’inizio quale sarà la sua arrogante preda. Va a colpo sicuro. E non attraverso brillanti deduzioni alla Poirot. Ma proprio perché, in un certo senso, lui lo sa già e basta – dato che lo sappiamo già anche noi. Il piacere non sta nella risoluzione intellettuale dell’eventuale enigma posto dal delitto. Sta invece tutto nel rompere il cazzo senza soluzione di continuità e poco a poco sempre più incastrare lo stronzo di turno. La cui colpa primaria non è l’omicidio, ma l’essere benestante, piacente e realizzato. E infine colpevole di aver sottovalutato il popolare Colombo, perché paradossalmente ingannato proprio dalle apparenze. Che non sono mai all’altezza di quegli standard vivendi.
By the way, caccia, scacchi, combattimento, Kojak, Callaghan… Colombo è evidentemente uno spettacolo di genere arcaico fallocratico. Negli anni ’90 cercherà ridicolmente di adeguarsi alle mutate sensibilità. Impossibile, l’impianto è quello: all’apparenza – e in buona sostanza – Frank è un uomo ‘vero’ in un mondo di uomini troppo eleganti, brillanti e raffinati. Troppo, se vogliamo, effeminati. Frank è il proletario contro la potente e ricca borghesia americana. Eppure lui, senza pistole, soffrendo vertigini e mal di mare, paura di volare, claustrofobia, gettando un ultimo sguardo commosso al criminale che vorrebbe tanto arrestare – perché lo sa colpevole, lo sa fin dall’inizio dell’episodio! – sembra ogni volta andarsene via, sconfitto e deluso. Solo per donare sadicamente un ultimo sospiro al colpevole, che crede di avercela insperatamente fatta. No, ogni dannata volta Colombo torna indietro, proferendo la fatidica espressione: “Ah, un’ultima cosa”… Ed è subito sera.
Il Tenente, da un singolare punto di vista strutturalista, decostruisce il mondo di inganni e finzione dei nostri vanesi viveur nonché datori di morte. Con la sua rutilante ritualità ripetuta ad nauseam, il Tenente dall’occhio di vetro porta avanti un’eroica, solitaria e ultratrentennale! lotta di classe. Abbattendo sempre nuovi nemici, in un’epica guerra che ha visto, tra le guest star, nomi del calibro di Leonard Nimoy (il mitico Spock di Star Trek, Fringe) e Johnny Cash (sic). Tra i registi, John Cassavetes (ivi anche attore) e un giovane Spielberg.

Il segreto del successo di Colombo: una rassicurante medietà
Strano ma vero: il QI del Tenente Colombo (il personaggio) parrebbe essere fuori dal comune (cosa che viene confermata in un paio di episodi). Non sembrerebbe. Comunque, qual è il suo segreto? Semplice, come noi, anche lui sa già fin dall’inizio chi è l’assassino. Dove sta allora il piacere in questo giallo di classe? Semplice, o forse no: nella sicurezza che offre ad ogni spettatore, suggerendo o meglio, insinuando che l‘uomo affascinante e di successo è per sua natura colpevole. E questa colpa, prima o poi, sarà smascherata. La noia ontologica delle esistenze condannate a ripetere sempre la stessa grigia giornata (lavoro, famiglia, televisione) è, in realtà, la paziente attesa di una sicura vittoria palingenetica. L’uomo medio è destinato a vincere. Basta aspettare che Colombo finisca la sua opera certosina.
Non occorre rileggere la Fenomenologia di Mike Bongiorno (contenuta in Diario minimo) di Umberto Eco, per comprendere come Colombo sia un perfetto e rasserenante show d’intrattenimento per l’uomo comune. Anzi, per tutta la famiglia. Niente nella sua narrazione è mai destabilizzante, come invece crime del genere True Detective (mi riferisco alla prime tre stagioni, o anche solo alla prima), Omicidio a Easttown, The Sinner ecc. Qualsiasi pater familias sarà ben lungi dal provare complessi di inferiorità rispetto al Tenente Colombo. Per usare le parole di Eco: “Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello”.
Nessuno sospetterà mai di poter magari essere molto più rompicoglioni del detective. Difficilmente le mogli saranno attratte dalla sua grottesca figura, con buona pace dei mariti e dei loro irrazionali isterismi di gelosia (ricordiamo che Colombo è una serie antiquatamente maschilista). E tutti i bambini – lasciamo perdere il tipico broncio adolescenziale – sghignazzeranno beatamente davanti alle sue stranezze maniacali. Insomma, uno show innocuo e divertente, oltre che vagamente rivoluzionario, perfetto per tutta la famiglia. Ecco perché Colombo è tuttora un riempitivo del prime time del sabato sera televisivo. E tutto questo senza nemmeno dover mai fare la fatica di scoprire chi sia il colpevole, visto che è stato beatamente identificato fin dai primi minuti. Colpevole che, come avrete sicuramente capito, non è mai il maggiordomo, casomai il suo padrone.
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