Corriamo ai ripari. Quando, all’inizio dell’estate 2025, erano uscite su Sky e Now le prime due stagioni di The Walking Dead: Daryl Dixon (con un paio di anni di ritardo sugli USA), commentammo col titolo “Daryl Dixon: la saga degli zombie sbarca in Europa”. Ne avevamo scritto così: “uno degli esperimenti più sorprendenti e (almeno fino a un certo punto) riusciti nell’universo, ormai vastissimo, del franchise di The Walking Dead”.
La terza stagione di Daryl Dixon ci costringe ahinoi a emendare il giudizio. A partire dal titolo: sbraca, non più sbarca.
Lo spinoff dell’epopea dei morti viventi aveva i suoi rischi già in partenza. Puntare tutto su un personaggio amato ma introverso. Sradicarlo dal contesto americano per gettarlo tra le rovine di una Francia devastata dall’apocalisse zombie. Affidargli una narrazione profondamente diversa – quasi un road movie tra cattedrali gotiche, villaggi e campagne che sembrano uscite da un romanzo di Hugo o Zola. Eppure la scommessa aveva funzionato (in buona parte). Portando la saga verso territori (geografici, emotivi, culturali) nuovi, freschi, a tratti persino lirici. Ampliando il respiro della narrazione, aprendo la saga al confronto con le mitologie e le memorie dell’Europa.
Già la seconda stagione, con il rocambolesco (per dirla eufemisticamente) ricongiungimento con il personaggio forse più disturbante tra i “buoni” della serie ammiraglia, Carol (che in redazione chiamiamo con affetto “scary Carol”), e il ritorno alle formule più trite del franchise, aveva sollevato qualche dubbio. Il terzo capitolo risolve i dubbi: ma nel senso sbagliato. Portando Daryl Dixon nei pericolosi territori di una soap opera francamente imbarazzante.
Altro che il confronto tra cultura americana e cultura europea, con cui ci eravamo baloccati! I nostri statunitensi sbarcano in Spagna, ma è come se fosse il Messico (dell’800).
Andiamo con ordine.
Daryl Dixon: concept, produzione, sviluppo
Nata dalla volontà di AMC di non abbandonare il fortunato universo di The Walking Dead, Daryl Dixon è creata da David Zabel e prodotta da un team che cerca di coniugare ambizione internazionale e rispetto per la tradizione del franchise. Norman Reedus riprende i panni del taciturno e leale Daryl, già figura chiave della serie madre, portando con sé una fisicità ruvida e magnetica che resta tra le più iconiche della tv contemporanea.
La prima stagione esce nel 2023, la seconda nel 2024 (in Italia, come detto, sono uscite insieme in ritardo), la terza nel 2025. I primi due atti sono di 6 episodi, il terzo di 7.
Lo sviluppo parte nel 2020, con la produzione incentrata sul duo Daryl-Carol, ma la rinuncia di Melissa McBride per motivi di agenda costringe a rifocalizzare la serie solo su Daryl. Il progetto non si arresta e anzi trova nuova linfa proprio nell’isolamento del protagonista. La scelta di farlo naufragare letteralmente in Francia, sulle coste della Provenza, apre un orizzonte imprevisto, permettendo agli sceneggiatori di reinventare molte dinamiche narrative.
La fotografia esalta le rovine gotiche, le campagne assolate e località iconiche – Marsiglia e la Provenza, Parigi, Mont-Saint-Michel, le spiagge della Normandia – trasformando lo scenario post-apocalittico in qualcosa di affascinante e straniante. Il ricorso frequente al francese, i tanti attori locali e il coinvolgimento di registi europei e maestranze locali danno autenticità all’operazione. Dimostrando che il franchise può parlare una lingua nuova senza snaturarsi.
E il pubblico, sia americano sia europeo, ha risposto con interesse e sorpresa.
La trama generale e la forza dell’incipit
La narrazione di Daryl Dixon si apre con una sequenza evocativa quanto misteriosa: Daryl che si risveglia ferito su una spiaggia francese. Non sappiamo, e forse neanche lui, come sia arrivato lì. Da subito, la serie costruisce un senso di spaesamento (la parola chiave dei momenti migliori della serie) e vulnerabilità che è nuovo per il personaggio.
Ben presto il nostro eroe, che vuole solo tornare a casa, in America, si ritrova coinvolto in una missione che non avrebbe mai scelto. Trasportare il giovane Laurent, un ragazzino misterioso che una comunità di suore considera un messia, fino a Parigi, tra mille pericoli. Nel viaggio, Daryl incrocia nuovi alleati e nemici, dalle monache combattenti ai paramilitari del Pouvoir des Vivants, passando per vari personaggi segnati dalla perdita e dalla resistenza.
La stagione alterna momenti di pura azione, atmosfere quasi fiabesche e sequenze che esplorano il trauma e la resilienza dei singoli e delle diverse comunità incrociate. L’ambientazione francese si rivela un alleato narrativo formidabile: le rovine, i villaggi, la maestà malinconica di Parigi, la Senna, le catacombe, la torre Eiffel in rovina e Mont-Saint-Michel danno alla storia una profondità visiva e simbolica che rinnova la mitologia della saga.
Senza entrare troppo nei dettagli degli snodi, la trama delle prime due stagioni (6 episodi ciascuna) ruota attorno alla ricerca di un modo per tornare in America (scopriremo che Daryl non era lì “in vacanza”) e, insieme, alla missione di proteggere – e poi educare – il giovanissimo Laurent. Naturalmente, i nuovi legami che costruisce e il confronto / scontro con il governo autoritario di Madame Genet, sorto dopo la dissoluzione dello Stato francese, complicano inevitabilmente la sua avventura.
Il rapporto di Daryl Dixon con la serie madre e gli spinoff
Daryl Dixon si inserisce in una galassia narrativa ormai vastissima: il franchise di The Walking Dead (cui abbiamo dedicato questo speciale) ha esplorato, in 11 stagioni e una moltitudine di spinoff, quasi ogni possibile declinazione del racconto post-apocalittico. Il finale della serie madre, come avevamo raccontato qua, aveva con tutta evidenza alluso a diversi spinoff. Tra cui uno basato sull’idea di affidare a Daryl uno show tutto suo. Idea per nulla scontata: trattandosi di un personaggio amatissimo dai fan, certo, ma sempre rimasto defilato, quasi schivo.
Nel panorama degli spinoff – da Fear the Walking Dead a World Beyond, da Tales of the Walking Dead a Dead City e The Ones Who Live – Daryl Dixon si distingue per tono e ambizione. Qui la posta in gioco non è solo la sopravvivenza, ma la ridefinizione stessa dell’identità. Come può un uomo “americano”, forgiato nel mito della frontiera e della diffidenza, reinventarsi in un contesto europeo? La serie madre era radicata negli spazi del Sud e del Midwest degli States, tra foreste, autostrade, cittadine e campi; questo spinoff osa portarci tra vigneti, monasteri, uliveti, castelli e persino nel cuore di Parigi. E, nella terza stagione, dopo un brevissimo passaggio per una Londra apocalittica, in Spagna. Tra coste, deserti, montagne, villaggi, Barcellona, magnifici palazzi moreschi.
Il confronto con gli altri spinoff “diretti” è significativo: se The Ones Who Live punta sul ritorno degli eroi storici (Rick e Michonne) e Dead City su una coppia improbabile (Negan e Maggie), Daryl Dixon si fonda sull’alchimia tra solitudine, paesaggio e nuove relazioni. Il franchise si dimostra ancora capace di rigenerarsi, cercando nuove vie per interrogarsi sulla natura umana e sulle sue possibilità di riscatto.
Un redneck tra storia, rovine e paesaggi
Il fascino di Daryl Dixon sta quindi soprattutto nell’effetto straniante di vedere un personaggio così radicato nell’immaginario americano – un “redneck” ruvido, taciturno, sopravvissuto per vocazione – gettato nelle trame di una Francia irriconoscibile ma ancora splendida (e poi della Spagna, ma lì come diremo il discorso degenera).
Il contrasto tra la cultura americana e quella europea è esplorato in ogni episodio. Daryl parla poco, fatica con il francese, si muove tra ambienti antichi che sembrano fatti apposta per sottolineare il suo spaesamento. I monasteri, le campagne, le strade di Parigi – con la Senna come nuovo confine, le catacombe piene di ombre, la torre Eiffel ridotta a rovina post-atomica – sono lo sfondo di una narrazione che oscilla tra azione, malinconia e riflessione storica. L’effetto è quello di un western europeo. Dove i duelli non sono più nel deserto ma tra i resti di una civiltà millenaria.
Effetto poi accentuato dalla terza stagione spagnola, piena come meglio diremo di paesaggi desertici, polvere, sole, predoni – e quindi naturalmente più western.
Nelle prime due stagioni di Daryl Dixon gli autori si divertono a giocare con i simboli della cultura francese: il cibo, la musica, i paesaggi rurali, le rovine della grandeur. E in questo viaggio c’è anche un sottotesto critico: il rapporto tra l’America e l’Europa, il fascino (e la paura) di confrontarsi con una storia più lunga di quella del Nuovo Mondo. Confronto evocato esplicitamente nelle immagini della replica della Statua della Libertà che, a Parigi, fa bella mostra di sé vicino al pont de Grenelle sull’Allée des Cygnes, un’isola sulla Senna. Realizzata nel 1889, guarda verso l’oceano Atlantico, verso la sua “sorella maggiore” nel porto di New York, eretta tre anni prima – e, come si sa, dono del popolo francese all’amica Repubblica Americana… Altri tempi!
La sorpresa Daryl Dixon: perché questo spinoff funziona(va)
A sorprendere, in Daryl Dixon, è la riuscita (soprattutto nella prima stagione, in parte nella seconda) di una scommessa per nulla ovvia: mettere al centro uno dei personaggi meno verbosi e più “duri” del franchise, e affidargli una serie tutta sua. Daryl, per le undici annate della serie madre, è sempre stato l’uomo delle soluzioni pratiche, della violenza necessaria, della lealtà silenziosa. Capace di azioni eclatanti ma non di grandi discorsi: la sua scelta di chiamare il proprio cane semplicemente “Dog”, “cane”, riassume efficacemente la sua essenza.
Eppure, privato dei suoi punti di riferimento, immerso in una cultura nuova, Daryl diventa protagonista di un percorso di crescita e vulnerabilità. Il confronto con la lingua francese, con alleati e nemici molto diversi da quelli americani, lo costringe a ridefinire i propri limiti e a interrogarsi sulle proprie motivazioni. L’incontro con Laurent – rapporto adulto-ragazzino, con una dinamica molto simile a quella di The Last of Us vista la comune ambientazione post-apocalittica – offre occasioni di tenerezza e sacrificio. Riecheggiando archetipi narrativi che vanno dal Cormac McCarthy del magnifico romanzo La strada a tanti road movie post-apocalittici.
Daryl Dixon riesce persino a regalarci, nel finale della prima stagione, un momento autenticamente emozionante – oltre che sorprendente. Il nostro eroe che, vicino a una spiaggia della Normandia, ritrova la tomba di suo nonno, soldato americano caduto negli sbarchi del fatidico D-Day. L’Europa così non si rivela solo sfondo “esotico”, ma luogo di confronto, crescita e speranza. Senza per questo che siano sacrificati ritmo e tensione.
Poi, però, arrivano la stagione 2. E soprattutto la 3. E insomma: crolla il palco.
Stagione 2: il ritorno di Carol
Con la seconda stagione, intitolata Daryl Dixon: The Book of Carol, la serie compie un passo avanti narrativo, recuperando una delle dinamiche più amate dai fan: quella tra Daryl e Carol, amicizia profonda e tormentata che ha segnato tutta la saga originale. Che però forse è un passo indietro in termini di riuscita complessiva.
Melissa McBride, assente nella prima stagione per motivi produttivi, ritorna come co-protagonista. Carol incarna l’altra metà della sopravvivenza: pragmatica, disillusa, madre che ha perso la figlia e guerriera ferita, diventa il contrappunto ideale alla solitudine di Daryl.
La seconda stagione approfondisce il confronto tra America ed Europa, tra modelli di resistenza e ricerca di senso, portando i protagonisti in nuovi territori e offrendo allo spettatore nuove prospettive. Qualcuno ha visto in questa mossa una perdita di unicità per lo spinoff, che torna a una formula più “corale”. Un po’ di fan, invece, hanno salutato con entusiasmo il ritorno di una delle relazioni più eccentriche e riuscite dell’intero franchise. Quella tra due outsider di opposta provenienza. Il ruvido campagnolo, la donna fragile – entrambi destinati ad evolvere.
Con “Carol la pazza” in campo, si torna a un livello di isteria, aggressività e distruzione che – sembra paradossale ma non lo è per niente – il solo Daryl aveva mostrato di poter superare. Specie nel dialogo con la diversa realtà europea. Tornati duo, i nostri “eroi” sfasciano tutto: monumenti, società ri-organizzatesi, rapporti. In un tripudio di inverosimiglianze che sfidano la pazienza e la disponbilità dello spettatore.
Ma diciamo: ancora in questa stagione 2, Daryl Dixon si conferma capace di tenere alta la tensione. E di interrogare ancora – tra le macerie dell’Europa – cosa significhi sopravvivere, scegliere, ricominciare.
Stagione 3: zombie, soap messicane, e la parodia di Mad Max
È con la stagione 3, però, che per Daryl Dixon arriva il crollo vero. Anzi, se mi passa il calembour, tombale. I nostri eroi cercano di arrivare in Inghilterra per raggiungere, da lì, la sospirata America. Il tunnel sotto la Manica è un incubo ad occhi aperti. Londra un inferno senza speranza. L’unico sopravvissuto che incontrano, e che sostiene di essere l’ultimo inglese vivente, racconta di aver visto Elisabetta II – sì, quella Elizabeth. Mutata in zombi. Insieme fuggono per mare.
Ma la barca fa naufragio (again), scaricandoli sulla costa spagnola. Da qui, inizia il delirio. Daryl e Carol vengono accolti in una comunità piuttosto ben organizzata: un villaggio vecchiotto ma apparentemente sicuro, abbarbicato tra i monti, non lontano dal mare. Solo che non c’è verso sia la Spagna degli anni 2000. A meno di pensare che l’apocalisse zombie abbia, chissà perché, fatto estinguere anche i vestiti in fibre sintetiche, i jeans, le felpe, le magliette di cotone colorato. Tutti sono vestiti come in una soap opera messicana ambientata nell’800. C’è il capo villaggio con lo schioppettone, il panciotto, la catena dell’orologio, il baffo virile e il capello lungo. Ci sono le feste notturne in maschera. I riti.
Quando entra in scena l’erede al trono di Spagna, sorta di protettore / sfruttatore di villaggi lontani centinaia e centinaia di chilometri dalla sua capitale, pensiamo di aver toccato il fondo. Invece ci aspettano dei “Primitivi” interessati solo a bruciare tutto e pure dei predoni idrici, tutto in stile Mad Max. Un villaggio di lebbrosi. Intrighi sentimentali e familiari. Una festa alla corte spagnola con zombi-marionette. E, quel che è peggio, una love story per Carol.
Finirà, è chiaro, in catastrofe. Narrativamente. Ma pure per noi spettatori. Sommersi dagli stereotipi.
Daryl Dixon: dall’illusione alla delusione
Tiriamo le somme. Daryl Dixon era partita pure gagliarda. Certo: segnata da inverosimiglianze clamorose, specie come detto nella seconda stagione, con interi snodi narrativi (a partire dalla facilità con cui Carol trova Daryl) che veramente gridano vendetta. Non che si guardi The Walking Dead pretendendo realismo, però uno sforzo di plausibilità in più…
Ma comunque, a distanza di tanti anni dal debutto di The Walking Dead (2010) il nuovo show sembrava dimostrare la capacità della saga zombie di rinnovarsi e di sorprendere. Se la serie madre era un grande apologo sulla fine della civiltà e sulla difficoltà di (ri)costruire una società giusta, Daryl Dixon rilanciava queste domande in una chiave nuova, più intima e insieme più globale.
E invece… C’eravamo sbagliati? Si sono approfittati del nostro buon cuore? Lo sa Dio. Forse lo sanno gli autori. Una cosa è certa: l’idea di portare l’epopea zombi nel cuore dell’Europa non si traduce, come ci era sembrato o avevamo voluto credere, in tentativo di costruire un qualche confronto culturale. Ma piuttosto in azione turistica, da consorzio di promozione territoriale. Animata non di simboli ma dei peggiori cliché.
L’Europa non esiste se non come fantasia dell’America, e dell’America più retrograda, anche perché i protagonisti di The Walking Dead non sono newyorchesi cosmopoliti ma ruvidi everyman. Dopo la Francia di vigneti, pecore, pastori e monasteri, dopo la Gran Bretagna con la regina zombi, dopo la Spagna di villaggi polverosi, calura, riti ancestrali e vestiti dell’800, forse possiamo suggerire una nuova tappa. Un bel capitolo italiano, tra zombi pizzaioli, gondole, mandolinisti, abbuffate di spaghetti, prefiche, mafiosi con la coppola.
La serie madre e il franchise: leggi l’articolo
Ai vari spin off di TWD abbiamo dedicato pure un podcast
The Walking Dead, gli spin off: il mondo dopo la fine | PODCAST

















