“Una madre merita di avere la piena possibilità di prendersi un giorno di vacanza se ha il figlio o un parente malato. E sapete che vi dico, anche un padre deve poterlo fare! È tempo di liberarsi dalle politiche di lavoro che assomigliano ad un episodio di Mad Men”
Barack Obama, State of the Union address, 2014
Che l’ex presidente degli Stati Uniti citi Mad Men durante un importante discorso ufficiale la dice lunga sull’importanza di questa serie americana uscita nel luglio 2007 e andata in onda per 7 stagioni fino al 2015. 92 episodi in Italia disponibili su Prime Video di Amazon.
Perché vale (ancora) la pena di guardare Mad Men
Vale ancora la pena guardarla, anche se ha più di dieci anni?
Assolutamente si. Nonostante sia ormai entrata nell’olimpo dei classici, Mad Men non è solo una meravigliosa storia estetica.
È un capolavoro letterario.
Se siete a caccia di una trama intelligente retta da dialoghi brillanti, situazioni ambigue e caratteri complessi, non rimarrete delusi.
Certo, è una serie lenta che richiede la partecipazione dello spettatore. Ci vuole un po’ di pazienza, come con un buon romanzo che nei primi capitoli si attarda nei dettagli. E i dettagli, in Mad Men, sono tutto.
È un capolavoro stilistico.
I costumi, i trucchi, gli oggetti e la scenografia sono talmente ben curati che giornali come il New York Magazine hanno dedicato intere rubriche allo “stile Mad Men”. Inoltre alcune case di moda tra cui Banana Republic, Prada e Jil Sander si sono ispirate alla serie per creare nuove collezioni uomo-donna tutt’oggi in voga.
Di che parla (e che cosa vuol dire) Mad Men?
Mad Men parla soprattutto di un’epoca precisa: il momento in cui gli Stati Uniti si trovavano a vivere e costruire il famoso Sogno Americano. Un mondo dove con perseveranza e tenacia era possibile creare imperi finanziari anche se si veniva dal nulla, come nel caso del protagonista Donald Draper. Ma le opportunità e la libertà di questo universo fittizio basato sul potere e sul denaro, erano perlopiù riservate ad una cerchia di maschi bianchi con la sigaretta e un bicchiere di whisky sempre in mano.
Il titolo significa Uomini folli?
Non esattamente.
Negli anni ‘50 il termine si usava per indicare chi lavorava nel mondo della pubblicità a Madison Avenue, una strada di Manhattan. “Mad” è quindi un abbreviativo per la strada dove sorsero le maggiori agenzie pubblicitarie americane. Ma naturalmente è anche un gioco di parole dato che “mad” in inglese significa pazzo.
E la serie parla proprio di questo: un gruppo di agenti e creatori pubblicitari nella fumosa e splendida New York anni ‘60. Uomini “nuovi”, spregiudicati e anche un po’ pazzi.
Sulla trama ed i personaggi sono stati versati fiumi d’inchiostro. L’autore, Matthew Weiner viene oggi studiato in importanti università americane.
Storia di un successo che nessuno voleva produrre
Eppure della sceneggiatura di Mad Men, all’inizio nessuno ne voleva sapere.
Weiner stesso ammette di aver perseguitato chiunque e di aver girato con lo scritto sempre in tasca, sperando di incontrare qualcuno disposto a produrlo.
Dopo sei lunghi anni e molta strada fatta come co sceneggiatore della famosissima serie I Soprano, Weiner trova un produttore e può cominciare a girare.
Jon Hamm, l’attore che interpreta Donald Draper, protagonista assoluto di tutte le stagioni, racconta in un’intervista che inizialmente non c’era alcuna certezza di andar oltre l’episodio pilota. La prima stagione di Mad Men viene diffusa da Amc, e raccoglie un pubblico d’elite entusiasta ma esiguo. In pochissimo tempo però si impone come serie d’avanguardia raggiungendo sempre più ascoltatori e vincendo negli anni successivi 16 Emmy e 5 Golden Globes.
Perchè tanto successo?
Anzitutto è l’opera di un artista, Weiner, che credo abbia cucito di sua mano anche i bottoni delle camicie degli attori. È un esempio esagerato per dire che, come potrete notare dai titoli iniziali, Weiner ha curato e scritto (e talvolta diretto) ogni episodio. Questo a mio avviso da allo spettatore la sensazione di leggere quasi un libro, dove un unico autore regge le fila dei suoi personaggi che conosce a fondo.
I famosi e bellissimi titoli di testa di Mad Men
Mad Men ha poi un grande ritorno di pubblico perché parla di problemi etici e sociali.
Molteplici sono i riferimenti alla tematica LGBT, totalmente oscura in quell’epoca dove ogni uomo doveva mostrarsi agli occhi di tutti uno spietato predatore di donne e di denaro. Nelle varie stagioni appaiono diversi omosessuali. Alcuni subiscono la loro condizione, prede di un vecchio modo di pensare. Altri, i più giovani, grazie al vento hippie e rivoluzionario che comincia a soffiare impetuoso, riescono a districarsi in un terreno che resta comunque ostile e omofobo.
Ma di certo Mad Men rimane famosissimo per aver trattato la condizione femminile di quegli anni, come ha sottolineato l’ex presidente degli Stati Uniti nella sua citazione.
Mad Men e la condizione femminile: non solo vittime
Fortunatamente la serie è troppo intelligente per scadere in polemiche o riferimenti scontati.
Non è una visione pietistica delle povere segretarie sfruttate. Anche le donne in Mad Men sono rapaci e ossessive come i loro capi.
Sono disposte a tutto pur di far carriera e alcune ce la fanno. Tra loro molto spesso non dimostrano alcuna solidarietà. Solo dopo sei stagioni le due protagoniste femminili (Joan e Peggy) si siederanno ad un tavolo assieme per parlare di lavoro. E non funzionerà.
L’epoca era di certo difficile ma era l’inizio di grandi possibilità per giovani ragazze anche povere e con poca istruzione. Superando poi le prime puntate dove le battute sessiste si sprecano, comprendiamo che l’atteggiamento degli uomini verso le loro “colleghe” non è del tutto negativo.
Certo, Joan e Peggy in ufficio hanno vita dura. Siamo ben lontani dal #me too. Lavorano il doppio degli uomini per un quarto dello stipendio e spesso hanno a che fare con battutacce e scherzi di cattivo gusto. Tutti vogliono andare a letto con loro ma se le interessate vanno da un ginecologo per chiedere la pillola anticoncezionale vengono ricoperte di insulti dallo stesso medico. Se poi si prendono incinta è colpa loro. Fanno orari allucinanti e devono essere sempre perfettamente a posto, poiché rischiano il licenziamento su due piedi ad ogni minuto.
Ma sorridono e vanno avanti. Sorridono meno “le mogli” dei protagonisti. Isolate in periferia coi figli, passano la giornata davanti alla tv fumando sigarette. Grazie al denaro e alla tecnologia sono state “liberate” dal lavoro di massaie. I loro passatempi consistono nell’andare dallo psicologo e accompagnare di tanto in tanto il marito a qualche cena di lavoro in città, ben vestite e con la bocca chiusa. Non c’è da stupirsi se in quegli anni fiorirono i divorzi di massa.
Il trionfo dell’obsolescenza
RIFLESSIONE: Era davvero solo maschilismo, o anche un’idea errata della vita e della coppia? E al di là dei ruoli uomo-donna, non si tratta piuttosto di un principio di ideale sbagliato che comincia ad annidarsi in quegli anni per poi esplodere nei decenni successivi? L’illusione cioè che sia meglio farsi sostituire nel lavoro dalle macchine creando e affidandosi ad universi fatti di nulla, che cadono a pezzi dopo due giorni?
Mi spiego meglio. Se le donne casalinghe vivono isolate senza più muovere un dito perché ci sono gli elettrodomestici e i piatti di plastica, gli uomini stessi non lavorano più con materie reali.
È il momento della nascita della pubblicità, dei prodotti mediatici di massa.
I protagonisti di Mad Men vendono concetti, cose che non esistono, o che esistono per brevissimo tempo, e vengono subito sostituite nel nome del progresso.
Sono i pionieri di quello che oggi è la Silicon Valley o delle grandissime industrie presenti nelle vite di noi tutti coi loro prodotti effimeri e obsolescenti.
Proprio all’epoca di Mad Men nasce l’idea dell’usa e getta. Il fatto che un pannolino non si dovesse più lavare, che una scatola di pomodoro, una volta aperta, si potesse buttare, rivoluzionò completamente le vite di milioni di persone che si sentirono liberate da una serie di gesti perditempo. D’ora in poi sarebbe stato necessario solo comprare i prodotti.
La pubblicità fu centrale per la diffusione di questo nuovo ideale di vita.
Pubblicità, felicità, rapacità
Nel primo episodio Donald Draper, durante una riunione con il suo principale cliente, la marca di sigarette Lucky Strike, ci seduce con queste parole.
“La pubblicità è basata su un solo concetto: la felicità. E sapete cos’è la felicità? È la liberazione dalla paura. È un pannello pubblicitario sulla strada che grida, rassicurandoci, che qualsiasi cosa facciamo, andrà bene”.
Da dove deriva questo cinismo quasi inconscio e sicuramente inquietante? Draper e molti dei suoi soci sono veterani di guerra. Da giovanissimi sono stati mandati in posti sperduti a scontrarsi con la violenza inaudita del conflitto e del massacro. Draper in Korea, Roger Sterling, il suo capo, in Giappone. E così molti altri.
La guerra ha cambiato da subito le loro vite rendendoli istintivamente aggressivi: nel caso di Draper, la guerra ha sicuramente modificato la sua intera identità, come si scopre nel corso delle stagioni. Molti di loro poi provengono da famiglie poverissime e il benessere galoppante degli anni ‘50 ha offerto la possibilità imperdibile di riscattarsi.
Non c’è nessuna remora, nessuna esitazione nell’ingannare l’altro per guadagnare e rendere la propria vita migliore, tanto più che il sistema crea tutte le scuse e le condizioni favorevoli per comportarsi in tal modo. È gente che, pur nella delicata complessità dei caratteri, è pronta a vendere anche l’anima al cliente, al denaro.
Verità, finzione, emozione: il magnifico finale della prima stagione (2007)
Splendida, indimenticabile, la fine della prima stagione, nel 2007. La puntata si chiama Carosello. Draper e i suoi soci si trovano in riunione con i venditori di un famoso proiettore di diapositive Kodak, per cui cercano un nome e una pubblicità. E Draper, al solito, li ammalia con il suo fascino distaccato e malinconico
“Il pubblico investe nel prodotto se prova grazie ad esso un legame sentimentale, un legame che deve essere profondo.”
Le luci si spengono e partono una serie di diapositive: sono immagini della famiglia di Draper, il suo matrimonio, la moglie incinta del primo figlio, il capodanno coi bambini. Draper continua
“Qualcuno mi ha detto che in Grecia la parola nostalgia significa letteralmente il dolore per una vecchia ferita. È una fitta al cuore molto più potente della memoria. E questo proiettore non è un’astronave: è una macchina del tempo. Va avanti e indietro portandoci in posti dove moriremmo pur di ritornare. Allo stesso tempo, ci fa vedere le cose con gli occhi di un bambino. È un carosello”
Le luci si riaccendono, le diapositive sono finite. I clienti e gli altri soci tacciono, profondamente commossi. Noi spettatori, coscienti che la famiglia Draper sta cadendo a pezzi, che il divorzio è imminente e che i bambini stanno soffrendo, siamo ancora più addolorati di loro.
L’unico a non battere ciglio è Draper, che si infila nel suo ufficio a bere whisky come d’abitudine. Ma non è né stupido né superficiale. Sa che la sua vita si sta sfasciando e usa questa emozione, questo legame profondo con la realtà per commercializzare il prodotto. Draper non ha una vera personalità o identità, come scopriremo. Lui è il suo lavoro. Il fatto che soffra non interessa realmente a nessuno. È considerato un genio. Un esempio da imitare. Un Mad Men, appunto.
Un’epopea sull’American Dream
La grande infelicità e malinconia che sovrasta quasi tutti i personaggi della serie suggerisce la possibilità che il Sogno Americano si regga su basi tutt’altro che solide.
Matthew Weiner voleva parlare del Sogno Americano, analizzarlo, scavarne le origini e sbatterlo elegantemente in faccia ai suoi spettatori. Da dove gli è venuta l’idea? Ce lo racconta lui stesso.
«Quando mi ero appena sposato, nel nostro quartiere viveva un cambogiano, uno che era scappato dai Khmer Rossi e venuto in America per rifarsi una vita. Mi pare che in Cambogia gli avessero amputato qualche dito. Questo ragazzo aprì un negozio di Donuts, ci dormiva addirittura dentro, l’attività era aperta giorno e notte. (C’era un altro famoso cambogiano che aveva iniziato con successo una catena di donuts a Los Angeles ma non credo fossero collegati.)
Negli anni lavorarono nel negozio i suoi figli assieme a lui e quando i figli andarono al college ci lavorarono degli impiegati. Il negozio non era più aperto 24 ore. E io dissi a mia moglie: quel ragazzo è venuto qui e ce l’ha fatta. Questo non è possibile ovunque. Lui è americano e così i suoi figli: certo, ogni tanto saranno soggetti a pregiudizi o cose simili. Ma uno può vivere in Inghilterra tutta la vita e non essere mai inglese.»
Weiner si ispirò dunque al ragazzo cambogiano dei donuts per creare il personaggio di Donald Draper. Draper è un bianco americano, ma dal passato oscuro e sepolto. Come il ragazzo dei donuts ha dovuto cambiare identità e ripartire da capo. E in America negli anni ‘60 era assai possibile. Anche negli anni ‘80.
E adesso?
Ascesa, caduta e redenzione del Re dei Donuts
Senza evocare i trumpisti e il loro razzismo fatto di muri e odio verso gli immigrati, tralasciando il fatto che l’America oggi non è più la potenza economica in ascesa del Sogno Americano, gettiamo comunque uno sguardo sul presente.
E restiamo sui donuts e la Cambogia. Il “famoso altro cambogiano” citato da Weiner è Ted Ngoy, chiamato anche Re dei Donuts.
Come il vicino di casa del regista, Ngoy era scappato dai Khmer Rossi, per venire in America e aprire un negozio di donuts. Talentuoso negli affari, appassionato di denaro, in pochissimo tempo Ngoy ha fondato un impero. Salvando moltissime famiglie cambogiane e facendole venire in America, riuscì ad aprire negli anni ‘70 centinaia di donuts shop, diventando milionario. Parallelamente però Ngoy sviluppò un’insana passione per il gioco e perse tutto a Las Vegas, dove aveva messo piede per la prima volta per vedere Elvis Presley. In qualche anno Ngoy riuscì a far fuori al tavolo da gioco non solo il suo patrimonio, ma tutti gli shops di sua proprietà. Ad un certo punto, per la vergogna, fuggì in Cambogia.
Di recente è stato contattato da una regista di Los Angeles, Alice Gu, che l’ha convinto a rientrare in America per girare un film su di lui. Il film “The Donuts King” esce nel 2020, riabilitando in parte la figura dell’ex miliardario che si sta ancora scusando con tutti i cambogiani che ha fatto immigrare e poi messo nei guai.
Dal racconto di Mad Men alla nostra realtà
Vorrei chiudere con un aneddoto. Un’amica americana, Rebecca, lavora come avvocato dei diritti dei lavoratori in Texas. Di recente mi raccontava di aver sostenuto la causa di un giovane ragazzo cambogiano emigrato a forza negli Stati Uniti.
Il malcapitato, convinto da un’oscura associazione, aveva partecipato in Cambogia alla lotteria della Green Card, un documento che permette a chi lo vince di abitare e lavorare in America. Senza capire una parola d’inglese, aiutato dagli emissari dell’associazione il ragazzo compila i moduli e inaspettatamente vince la Green Card. Si ritrova in quattro e quattr’otto in Texas, a lavorare giorno e notte in un negozio di donuts.
L’associazione che aveva preparato le carte gli aveva altresì costruito questa nuova esistenza. Un’esistenza di schiavo che non sa la lingua del suo nuovo paese e non può praticamente uscire dal minuscolo shop dei bomboloni americani.
Miracolosamente questo ragazzo è riuscito ad entrare in contatto con gli avvocati per i diritti dei lavoratori, dove ha incontrato la succitata amica. Rebecca ha fatto aprire un’inchiesta sull’oscura associazione, “liberando” il giovane che ora, con la sua Green Card, può restare in America. Oggi, anche grazie al risarcimento in denaro che ha ricevuto per i danni subiti, sta studiando per diventare infermiere. Un altro Sogno Americano?
Abbiamo discusso di Mad Men anche in questo podcast