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Wolf like me, il mito della donna selvaggia si fa serie

Dietro una storia di licantropia al femminile, la piccola serie australiana (in Italia su Prime Video) racconta con intelligenza e delicatezza un incontro tra ferite, fragilità e forza

di Jacopo Bulgarini d'Elci
08/05/2022
in Articoli, Artwork
Cover di Wolf like me per Mondoserie
295
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In Wolf like me, intrigante e ben riuscita piccola sorpresa pubblicata da Prime Video di Amazon in aprile, tutti hanno un fardello. Che schiaccia e tormenta e strema i personaggi, perché per tutti quel fardello è pesante. Ma pesante non è affatto la serie. Non solo per la sua brevità: 6 puntate sui 30 minuti ciascuna, che scorrono via bene e senza lungaggini. Ma anche per la sua levità: una benedetta leggerezza di tono che valorizza, senza contraddirla, la drammaticità di tanti elementi. 

Quel che colpisce subito, di questo show australiano, è infatti la commistione di generi e toni. La storia è drammatica, ma è capace di far sorridere. È un delicato studio psicologico ed emotivo sulla distanza che a volte imponiamo al resto del mondo per proteggere ferite ancora aperte o troppo profonde, eppure ha qua e là tratti da commedia grottesca. È una storia d’amore, ma anche – ebbene, sì – di licantropia. 

E, al contempo, un’interessante e toccante riflessione sul femminile. C’è un lupo mannaro, anzi una lupa mannara, e non mancano alcuni (contenuti) elementi splatter. Ma dietro il paravento di una storia che rifiuta di farsi intrappolare nei confini e negli stereotipi di genere, Wolf like me nasconde un piccolo e assai riuscito manifesto poetico. Che trasforma in serie il mito archetipico della donna selvaggia.

Cos’è e di cosa parla Wolf like me

Ho già usato due volte l’aggettivo “piccolo”: piccola serie, piccolo manifesto. Vero in termini produttivi: lo show realizzato dall’australiana Stan con NBCUniversal e Peacock non spreca niente. Concentrandosi su poche relazioni, ambienti limitati, azioni essenziali (l’incidente che apre il racconto), molto dialogo. E appunto, perché Wolf like me è piccolo (ma prezioso) in termini di storia. 

Gary (Josh Gad) è un padre single che vive ad Adelaide, in Australia, con la figlia Emma di 11 anni. Padre e figlia condividono il trauma della morte della madre di Emma, Lisa, 7 anni prima. Una tragedia che ha reso il padre, dopo un iniziale rigetto di tutto ciò che poteva ricordargli la moglie defunta, iper protettivo e soffocante nei confronti della ragazzina. L’incontro, o meglio scontro (in un violento incidente d’auto), con Mary (Isla Fisher) rompe la loro routine. Lei è una redattrice che lavora in isolamento, fuggita a sua volta da un evento terribile che solo progressivamente verrà chiarito. Eccentrica e sfuggente, sembra avere la capacità di superare molto facilmente le barriere erette da Emma. 

Il feeling tra Mary e Gary è immediato. Ma lei fugge, cercando di porre distanza. Una serie di coincidenze e di nuovi incontri fortuiti fanno pensare a un destino che manovra per far intrecciare le vite dei due, anzi tre personaggi. Ma intanto si svela il segreto della donna: nelle notti di luna piena, diventa un lupo assetato di sangue. Una condizione che sembra scoraggiare prossimità e intimità… 

Donne che corrono con i lupi

“Ogni donna ha un lupo dentro di sé”, dice a Mary l’anziana ospite di una casa di riposo che la donna è andata a trovare. “La cosa importante è come sceglierai di nutrirlo”. È un momento rivelatore nell’arco di Wolf like me. La licantropia non è solo pretesto narrativo. E la scelta dell’inversione di genere non è solo la ricerca di una prospettiva meno abusata. 

Il discorso che la serie tenta è più ambizioso. In termini psicologici e antropologici non ha paura di costruire un ritratto della donna che ne contempli e anzi evidenzi il lato selvaggio. Non come accidente, ma come elemento costitutivo. Represso, segregato, nascosto alla vista dalla società: eppure sempre presente. Sepolto in profondità, ma pronto a riemergere con tutta la propria potenza e ferocia. Misterioso, inaccessibile. Ineludibilmente legato ai ritmi della natura (la ciclicità lunare). E, una volta scatenato, bisognoso di essere saziato. 

Wolf like me guarda, con tutta evidenza, al mito della donna selvaggia. Grande e ricorrente archetipo della cultura antropologica e psicanalitica degli ultimi decenni. Immortalato da un bestseller che ha appena compiuto 30 anni, e cioè il celebre Donne che corrono coi lupi. Primo libro e maggior successo dell’americana Clarissa Pinkola Estès, scrittrice, poetessa e psicoanalista statunitense, specialista in disturbi post-traumatici. Uscito nel 1992 (in Italia l’anno dopo), Donne che corrono coi lupi è stato accolto con estremo favore da critica e pubblico ed è rimasto nella classifica dei best seller del New York Times per tre anni.

Il sottotitolo originale ne chiarisce bene senso e portata, e la prospettiva junghiana: Myths and Stories of the Wild Woman Archetype. Esplorando le diverse incarnazioni culturali dello stesso concetto: la sacralità di una dimensione “ferina” del femminile, radice del potere delle donne. 

Wolf like me, perché guardarlo

Come si capisce, le ambizioni sono tante. In mani meno abili, la storia di Wolf like me poteva diventare farsesca. O pedante. O sbracare nell’horror grottesco. Se invece la serie funziona, e funziona sorprendentemente bene, è grazie a tre cose. I due attori, ovviamente. Isla Fisher infonde la sua Mary di tutte le giuste caratteristiche: sotto la superficie vulnerabile, ribolle un fuoco possente, di cui lei per prima teme gli effetti. Josh Gad è un padre e un uomo tenero, impacciato, affettuoso, spaventato, oppresso dal dolore e dal dovere, costantemente sul punto del collasso emotivo. 

Ma il merito principale va a Abe Forsythe, che ha creato lo show, scritto e diretto tutti e 6 gli episodi: giovane attore, sceneggiatore, regista e produttore australiano, Forsythe ha una delicatezza di tocco piuttosto rara. Riuscendo a garantire l’equilibrio che qui, più che altrove, serviva a far funzionare una storia tanto particolare. 

La licantropia vera e propria viene pienamente mostrata, per dire, solo alla fine. Scelta felice, che permette di concentrarsi sul vero cuore del racconto. E cioè il fardello di cui ciascuno è portatore in questa valle di lacrime, il mix di ferite e dolore e speranze che a volte finisce per schiacciarci. O definirci. Impedendoci a volte di aprirci agli altri, al mondo, alla vita. O di riaprirci, dopo esserci barricati dietro alte e inespugnabili mura. 

Come nei versi della canzone dei Queens of the Stone Age, Fortress, più volte evocata nella serie, e che ascoltiamo nel bel finale. 

Your heart is like a fortress

You keep your feelings locked away

Is it easier?

Does it make you feel safe?

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Tags: dramafemminileossessione e inquietudinesolitudineWolf like me
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Jacopo Bulgarini d'Elci

Jacopo Bulgarini d'Elci

Fondatore e direttore del progetto MONDOSERIE, prende le serie terribilmente sul serio. In una vita precedente è stato assessore alla cultura della città di Vicenza. In altre e non meno reali esistenze, si è perso sull’isola di Lost, ha affrontato i propri gemelli oscuri in Twin Peaks, ha avuto il cuore spezzato da Breaking Bad. Autore e critico tv, scrive interventi sulle trasformazioni dell’immaginario pop (Doppiozero), cura una rubrica settimanale su The Week (inserto domenicale dei giornali del gruppo editoriale Athesis), tiene conferenze, coordina e realizza pubblicazioni. Soprattutto, guarda e riguarda show da quasi 30 anni.

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