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Squid Game: la morte è un gioco infantile (per ricchissimi voyeur)

La serie sudcoreana, vero e proprio fenomeno globale, sa essere enigmatica, graziosa ed eccessiva

di Livio Pacella
26/07/2025
in Articoli
cover di Squid Game2 per Mondoserie
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Squid Game è una celeberrima serie televisiva sudcoreana – ideata, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk – e suddivisa in tre stagioni, per un totale di 22 episodi, distribuite da Netflix dal 2021 al 2025. Da una prospettiva squisitamente narrativa, le stagioni avrebbero dovuto essere soltanto due. L’ulteriore suddivisione tra la seconda (2024) e la terza (2025) – in realtà prima e seconda parte del prosieguo – è stata di carattere produttivo.

Lo show, il cui titolo – in it. Il gioco del calamaro – allude ad un popolare gioco coreano che si usa fare tra bambini, è diventato da subito un fenomeno globale. È ad oggi la serie sudcoreana più vista di sempre negli Stati Uniti, nonché uno degli show Netflix più visti tout-court, con la detenzione di diversi record tuttora imbattuti (miglior esordio tra le produzioni originali, permanenza nella Top 10, riproduzione ecc). Vanta inoltre, senza considerare i risultati dell’ultima stagione, un Golden Globe, 3 Emmy, 3 Screen Actors Guild Awards e 3 Critics’ Choice Awards. Così, tanto per.

Vale infine la pena ricordare che la serie Squid Game, così come il film premio Oscar Parasite (2019), è un emblematico esempio della cosiddetta ‘Korean Wave’. A cui si deve, tra le altre cose, l’imbarazzante K-pop. Imbarazzante perché nessuna boyband occidentale è riuscita ad emulare i BTS nei primi anni 2000 (per saperne di più, vedere il documentario Dirty Pop – La truffa delle boy band), oppure imbarazzante – e basta.

Un inquietante invito

A proposito di cose imbarazzanti, lo è anche la semplicità – o l’apparente semplicità – della trama di Squid Game. Il protagonista, Sung Ji-hun (Lee Jung-jae), è un fallito di mezza età, divorziato e indebitato fino al collo. Un giorno, viene avvicinato in una stazione della metropolitana di Seul da un uomo in giacca e cravatta, che gli propone una sfida a ‘ddakji’ (semplice gioco di strada). In caso di sconfitta, vi è uno schiaffo in faccia. In caso di vittoria, dei contanti e un misterioso invito. 

Un invito per partecipare ad una serie di giochi legati al mondo dell’infanzia. In palio, un montepremi da capogiro. Così 456 persone, di ogni genere e età, accomunati solo dalle simili disastrose condizioni economiche, giungono – senza sapere bene come – in un’isola misteriosa, dove si risvegliano all’interno di una sorta di dormitorio casermone. Vestono tutti delle tute verdi, ciascuno con il proprio numero.

Sono sorvegliati da donne e uomini mascherati e armati fino ai denti, a loro volta vestiti e incappucciati di rosa. Le maschere, griglie di color nero, portano disegnati in bianco simboli elementari: triangolo, quadrato, cerchio. I diversi simboli rappresentano i diversi gradi d’autorità. Il quadrato è a capo dei triangoli, che a loro volta sono a capo dei cerchi. Tutti dovranno comunque sottostare ad un inquietante figuro mascherato, incappucciato e di nero vestito, vagamente somigliante a Darth Vader di Star Wars: The Front Man (Lee Byung-hun),

Squid Game: un, due, tre, stella! 

L’atmosfera è, fin da subito, doppia, eccessiva e paradossale: sembra di essere in un campo estivo e, allo stesso tempo, in un campo di concentramento. Eppure, come viene chiaramente e pacatamente spiegato, tutti sono lì per loro libera scelta. Non solo: in realtà, possono sempre andarsene quando vogliono. Alcune precisazioni sono però d’obbligo. La scelta non può essere individuale, ma sempre e solo democraticamente collettiva. Si dovrà ogni volta sostenere una votazione: una votazione aperta, libera e, per l’appunto, democratica. Ogni volta? Seconda precisazione: ogni volta che è stato superato un gioco. Intanto, devono tutti obbligatoriamente partecipare al primo gioco. Un, due tre, stella! 

Immagino ogni paese ne abbia una propria variante linguistica. A partire dalla stessa Corea del Sud, dove il gioco si chiamerebbe ‘Il fiore di ibisco è sbocciato’ – che è il titolo della canzone (l’ibisco è il fiore nazionale) le cui strofe vengono cantate al posto della conta. Conta fatta dando le spalle e coprendosi gli occhi, durante la quale tutti si possono muovere, cercando di raggiungere la meta. Quando chi sta contando, all’improvviso, smette e si volta, ci si deve immediatamente immobilizzare. Se qualcuno viene visto muoversi, quel qualcuno è fuori.

Fuori dal gioco. Che, in Squid Game, si traduce in morto. Sarà raggiunto da un proiettile che lo ucciderà – forse – all’istante. Il gioco avviene all’interno di un grande cortile, dove tra gli innocenti colori predominanti (“l’uso dei colori piatti e luminosi come quelli di giocattoli per l’infanzia enfatizza l’orrore per il sadismo di cui è fondale”) si staglia una gigantesca e agghiacciante bambina robotica. A questo mostro gentile sono affidati i movimenti meccanici del canto – conta. E dei micidiali sguardi che improvvisamente ne seguono. Comincia innocentemente l’eccidio.

Tra il pediatrico e lo psichiatrico

Perché così funzionano in Squid Game questi giochi infantili, giocati però da donne e uomini adulti. Giochi in cui, da bambino, quando si era fuori, si era ‘morti’. E qui c’è la morte per davvero, né più né meno. Da una parte, la cruenta brutalità di decine e decine di esseri umani crudelmente ammazzati, in seguito riposti in bare a forma di grande scatola di cioccolatini. Dall’altra le ambientazioni stucchevoli e le cantilenanti filastrocche che si susseguono, a seconda dei giochi. Nel mezzo, un’implacabile e rigorosa burocrazia, che regola il conteggio dei sopravvissuti e, di conseguenza, l’aumentare del montepremi. Che ogni morte innalza di cento milioni di won (approssimativamente 62.000 euro). Restando in vita un unico giocatore, la vincita sarebbe dunque di circa 45 miliardi di won – fatevi i conti – uhm vabbè, vi vengo incontro: mi si dice corrisponda a 33 milioni di euro, più o meno).

Alleanze, tradimenti, strategie – ora per superare il prossimo gioco, ora semplicemente per sopravvivere… Se poi si realizza che meno si è, più si incassa, si fa abbastanza presto a dedurne le tristi e sanguinose conseguenze (le regole non proibiscono ai concorrenti di farsi fuori tra di loro, magari di notte)…

Dal tiro alla fune al salto della corda (entrambi con fatidico salto nel vuoto), passando per il gioco delle biglie, quello del calamaro (sic) e nascondino, ogni volta assistiamo ad una grottesca messinscena dall’allestimento a metà tra il pediatrico e lo psichiatrico. Ogni spazio, a seconda del gioco in questione, è decorato e coreografato come se dovesse ospitare dei bambini. Mentre in realtà noi sappiamo che tutto è destinato a macchiarsi velocemente di sangue e morte. 

Squid Game: uscirne vivi e volerci tornare…

La stessa scenografa ha detto di essersi ispirata all’idea di un libro illustrato per bambini sull’inferno del capitalismo. Di più, “gli intricati set color caramello e le tute verdi dei giocatori sono spesso striati e schizzati di sangue, riflettendo il modo perverso in cui la sofferenza moderna viene perlopiù presentata come uno spettacolo” (Morgan Ome, The Atlantic). 

Alcuni giochi sono di abilità, altri di pura fortuna. In alcuni si gioca da soli, in altri a squadre, in altri ancora l’uno contro l’altro. A volte compaiono questi assurdi pupazzi meccanici giganti, dalle fattezze di fanciullo o fanciulla. Spesso vi è un tempo determinato, il cui scorrere è scandito da angoscianti cantilene registrate. Per ogni sessione di questi giochi, che si svolgono – in modo del tutto illegale – verosimilmente una volta l’anno, ci sono sei sfide complessive, al termine delle quali viene proclamato un vincitore. Che si risveglierà magicamente su una strada a caso, in un quartiere della sua città, in possesso di una carta di credito dorata, che gli darà accesso ad un conto multimiliardario.

Questo succede a Sung Ji-hun, il protagonista il cui viaggio era cominciato proprio da una strada. Con lui abbiamo assistito ad una carneficina senza precedenti. Avvallata di volta in volta, in modo del tutto democratico, dalle stesse vittime, chiamate a scegliere il proprio destino tramite votazione collettiva. Ma tutto questo ha profondamente segnato e traumatizzato Sung Ji-hun, che dei soldi inizialmente non sa nemmeno che farsene. Torneranno ad avere senso quando deciderà di investirli per riuscire a ritrovare i reclutatori del gioco e ritornare nello Squid Game. Con la volontà di smantellarlo dall’interno. Dall’interno – e non solo: c’è almeno un’altra persona intenzionata ad individuare l’isola misteriosa.

Un melodramma eccessivo, tra Escher e 007

Oltre al viaggio del protagonista, nella prima stagione assistiamo anche a quello di Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), giovane poliziotto alla ricerca del fratello Hwang In-ho, scomparso anni prima. Infiltratosi rocambolescamente tra i guardiani del gioco, riuscirà alla fine a ritrovarlo – proprio nella persona del Front Man. Nella seconda e nella terza stagione abbiamo dunque il ritorno al gioco e all’isola che lo ospita. Remota, inaccessibile e isolata, spettacolarmente attorniata da un’impenetrabile nebbia, l’isola contiene un fantasmagorico micromondo, dotato di spazi indefinitamente modellabili a proprio piacimento, modernissime infrastrutture e rigorosi sistemi di sicurezza. Il tutto però rappresentato con una tecnologia dall’estetica retrò, che ricorda molto i vecchi film di 007 (quelli con Sean Connery, per intendersi), e le isole dei suoi bizzarri antagonisti.

Il grande direttore di queste surreali e malvage olimpiadi – The Front Man – deve dunque ora vedersela sia con il vincitore del passato sia con il fratello minore che lo credeva morto. Questi ultimi due – ça va sans dire – hanno stretto tra loro un’alleanza. Questo aspetto della trama così dannatamente melodrammatico – ce ne saranno anche altri – appartiene a pieno titolo alla stessa tradizione narrativa sud coreana (vedi ad es. La creatura di Gyeongseong). Che ha tutta una particolare propensione per l’eccesso. Non solo in termini, come abbiamo appena visto, di trama – nella seconda stagione tra i concorrenti vi saranno addirittura, senza sapere l’uno dell’altra, madre e figlio – ma anche di messinscena – le scale che i concorrenti devono percorrere per accedere ai giochi sono un evidente omaggio ad Escher.

E, per finire, come recitazione. Per quest’ultimo aspetto però le cose si fanno più delicate, diventando sensibilmente più difficile comprendere quando un’interpretazione è consapevolmente sopra le righe e quando invece si tratta solo di pessime scelte attoriali (vedi ad es. i seguaci dell’improvvisata sacerdotessa, e anche non poco di quello che fa lei).

Squid Game: cui prodest?

Ma, tornando allo Squid Game, chi l’ha creato e per chi? Perché replicare i semplici giochi dell’infanzia coreana, con in gioco una posta letale? Scopriamo presto questi ludici massacri essere spettacoli – offerti in diretta video – per il personalissimo ludibrio di pochi e pervertiti privilegiati, come abbiamo discusso in questa riflessione sulla crudeltà delle élite globali. Per le gare finali gli spettatori corrono per presenziare, dietro grandi vetrate oscurate, indossando raffinate maschere animalesche. Le loro quote di partecipazione sono tali da rendere addirittura trascurabile il montepremi finale: rende l’idea? La ricchezza tanto agognata dai 456 poveracci, disposti per essa a scannarsi tra loro, non è che un ticket per questi ‘psyco VIP’.

Mollemente sdraiati su un divano, sorseggiando o ingollando costose bottiglie, e dando all’occorrenza sfogo ai bassi istinti con qualche grazioso inserviente, fanno a gara tra loro, puntando su questo o su quel concorrente – identificato ovviamente solo dal numero. Oltre a ciò, fanno anche a gara a commentare gli accadimenti nel modo più cinico, arguto e sarcastico possibile.

E ne hanno di situazioni da commentare: i partecipanti ai giochi creano un intricato mosaico di dilemmi etici, per lo più insostenibili. Quanti saranno disposti a rinunciare alla propria umanità – o quel che è – per la propria egoistica sopravvivenza? Di quali azioni senza scrupoli, dettate ora dalla malvagità ora dalla disperazione, saranno capaci di macchiarsi? Resilienza, empatia e opportunismo: sarà proprio nelle situazioni più estreme che si vedranno le reazioni più estreme… Nel mentre si rivelano le sfaccettature più profonde e impensabili dell’animo umano, il gioco procede senza sosta. Del resto, il boss non teme mai la votazione possa andare in una direzione diversa da quella usuale. “You still don’t see, don’t you? The game will not end until the world changes”…

50 anni dopo Salò o le 120 giornate di PPP

Uno strano legame si crea tra questa oscura figura e lo stesso protagonista, che ha coraggiosamente scelto di tornare in quell’incubo senza fine, proprio per porvi fine. Da questo legame nasce buona parte del conflitto narrativo e della tensione etica che pervade questa serie. “Hai ancora fiducia negli esseri umani?” chiederà, in un momento cruciale, Hwang In-ho – il Front Man, che decide di entrare egli stesso nei giochi con il numero 001 – al numero 456, ovvero a Sung Ji-hun.

Da un punto di vista squisitamente pragmatico, i giochi non sono che un rarissimo ed eccitante show per un annoiata e degradata élite. Eppure sono anche un enigma, pesante come un macigno, sopra la testa dell’umanità. Come avrà modo di rivelare, all’interno della prima stagione, il loro stesso creatore: il gioco serve non solo a intrattenere i ricchi, ma anche a fornire un ‘senso’ all’esistenza dei poveri. Poveri che sono chiamati a scegliere liberamente, dall’inizio alla fine, la propria partecipazione. E quindi, come in una qualsiasi lotteria nazionale, le cui probabilità di vincita sono praticamente pari allo zero, anche della loro macabra morte…

Rispetto al venerando e terribile Salò o le 120 giornate di Sodoma, i 50 anni trascorsi hanno portato in fondo a quanto già presagito nei suoi profetici scritti dallo stesso Pasolini: gli odierni schiavi accettano di buon grado la propria schiavitù. E si condannano democraticamente a morte.

Lo sfruttamento capitalista in Squid Game

A proposito della loro morte. Più su, veniva scritto, con una certa nonchalance: “che lo ucciderà – forse – all’istante…” Il riferimento è ad un sottomondo, nell’organizzazione dei giochi: quello dell’estrazione e della vendita degli organi, totalmente autogestito da un autonomo gruppetto di sorveglianti. E che necessita i morti non siano del tutto morti, così da provare a tenere gli organi fino all’ultimo in buone condizioni. Se il sistema previsto dall’organizzazione dello Squid Game prevede una fulminea cremazione delle scatole di cioccolatini formato bara e dei cadaveri al loro interno, questo sottogruppo indipendente ha trovato il modo di recuperare i corpi non ancora freddi (quindi non ancora morti), per poterci lucrare sopra, rivendendone i pezzi.

Interessantissima mise en abyme, dove il corpo del poveraccio in questione, sfruttato per il personale e deviato godimento del ricchissimo di turno, non ha però ancora finito di essere del tutto sfruttato. Può, anzi, generare ulteriore ricchezza. Per la classe media al servizio delle signore e dei signori mascherati da animali. Della serie: non c’è proprio fine allo sfruttamento di tipo capitalista.

Del resto, Squid Game è una limpida satira dell’intero sistema capitalista. Almeno nelle intenzioni del suo autore. “Credo davvero che l’ordine economico globale sia diseguale e che circa il 90% delle persone ritenga che sia ingiusto. Così ho cercato di trasmettere un messaggio sul capitalismo moderno. Come ho detto, non è una riflessione profonda.” Non è una riflessione profonda: in ciò, bisogna ammetterlo, c’è dell’umiltà, e della saggezza.

Vendendo l’anima al diavolo…

Ora, a prescindere dalla situazione specifica della crisi del modello capitalista in Corea del Sud (“Volevo creare qualcosa che risuonasse non solo con il popolo coreano, ma a livello globale”), incredibile è il parallelo tra questa serie è la Brothers Home: un centro di detenzione privato, presentato pubblicamente come centro di assistenza sociale. Negli anni Ottanta, soprattutto in previsione delle Olimpiadi dell’88 a Seoul, il governo mise in atto una violenta repressione contro mendicanti e vagabondi nelle principali città del paese. Migliaia di persone furono mandate, contro la loro volontà, in centri come la Brothers Home. L’operazione venne chiamata “Progetto di purificazione sociale”. E questo è tutto.

L’eco di Squid Game, non solo in Corea del Sud ma a livello globale, è stato immenso. Se nel proprio paese addirittura candidati politici e sindacati hanno fatto proprie diverse espressioni e immagini tratte dalla serie, nel resto del mondo diversi gruppi hanno organizzato giochi che simulavano quelli della serie, cadaveri a parte. In Italia, una nota squadra di calcio di Serie A ha indossato una maglia con il logo dello show durante una partita di campionato. Vi è stato poi il reality show angloamericano Squid Game: La sfida (Netflix, 2023), sorta di perversione ai limiti del pornografico, che sfrutta senza ritegno il successo della prima stagione per inscenare un’oscenità concorrenziale prefabbricata a dir poco raccapricciante.

Per concludere questa grottesca carrellata, dedicata allo strepitoso successo dell’esordio di questa serie, vale la pena notare che lo stesso autore Hwang Dong-hyuk si ritrova alla fine incastrato nei meccanismi da lui posti in metafora. Avendo candidamente dichiarato di non sentire a suo tempo alcun bisogno di un seguito alla prima stagione di Squid Game, e avendo con altrettanto candore ammesso la sua frustrazione a fronte della sua parcella e dei ricavi di Netflix, ha infine accettato di realizzare la seconda e la terza stagione della serie. Non solo: lo stesso Hwang ha partecipato alla creazione della vergognosa pagliacciata del reality di cui sopra. Vendendo, per così dire, l’anima al diavolo. Poi, chissà, il fatto che l’ultima scena dell’ultimo episodio dell’ultima stagione si svolga negli USA – protagonista, sorprendentemente, Cate Blanchett – è forse un’indicazione, nemmeno troppo velata, di dove questo diavolo risieda…

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Livio Pacella [altrove Al Lecap o liviopacella]. Attore, autore, regista, filosofo ballerino, poeta maledetto, bohemien, da tempo impegnato nella stesura di "In Progress - a work", continua a vivere, tra lo stupore generale, al di sopra dei suoi mezzi.

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