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Clark – verità romanzesca e autobiografica finzione

Miniserie sul criminale svedese che ha ispirato la Sindrome di Stoccolma

di Livio Pacella
04/05/2024
in Articoli
cover di Clark per Mondoserie
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Clark è una miniserie biografica in 6 episodi (Netflix, 2022), diretta da Jonas Åkerlund, sulla vita di Clark Olofsson, interpretato da un titanico Bill Skarsgård (It, Castle Rock). Celebrity gangster, rockstar del crimine, oppure anche “incrocio tra Pippi Calzelunghe e Al Capone” (come venne realmente definito), Clark è basato su verità e menzogne, come anticipato nei titoli di testa. Nei titoli di coda viene invece indicata l’autobiografia dello stesso Olofsson come fonte primaria della narrazione. “È la verità e nient’altro che la verità” – dice il protagonista, mentendo spudoratamente. Altre fonti non ce ne sono. Questa ambiguità di fondo tra romanzo e realtà è la cifra stilistica di Clark, narrazione mitologica e rocambolesca di questo improbabile Vallanzasca in salsa svedese. Avrebbe dovuto chiamarsi Sindrome di Clark Olofsson, si lamenta egli stesso in uno dei suoi tanti momenti di candida autoaffermazione, riferendosi all’arcinota Sindrome di Stoccolma. E non ha tutti i torti.

Il 23 agosto 1973 tale Jan-Erik Olsson, da poco evaso dal carcere, tenta una rapina in una banca della capitale svedese. Vi si barrica dentro con quattro ostaggi: come riscatto chiede la liberazione di Clark Olofsson, già noto al pubblico. Clark entra nella banca (più precisamente nel caveau) dove resterà, assieme ad ostaggi e sequestratore, per ben sei giorni. Infine la polizia irromperà con i gas lacrimogeni, liberando tutti. Gli ostaggi avevano in tutto quel tempo sviluppato un legame empatico con i due criminali, al punto che dichiararono di aver temuto più la polizia. Definirono Clark “un Dio di emergenza”. Questo strano sodalizio prese proprio da allora il nome di Sindrome di Stoccolma. Tuttavia non è ad oggi inclusa nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Cronologia criminale esistenziale

Nella serie la rapina del ’73 è solo uno dei tanti episodi nella carriera criminale / esistenziale di Olofsson. Il racconto procede per lo più in modo cronologico, dall’infanzia problematica – padre alcolizzato, madre trattenuta in psichiatria – all’adolescenza ribelle e arrapata. Se i brutali traumi dell’infanzia torneranno spesso, in forma di flashback, a chiosare momenti particolari della sua vita, il rapporto con le donne sarà un altro ossessivo e ripetuto leit motiv.

Nel clima libertino che caratterizzava il paese negli anni ’60, il giovane e fascinoso Clark (il nome in omaggio a Clark Gable) ama vantarsi delle sue molteplici conquiste e dei suoi tanti innamoramenti. La maggior parte della durata di un velocissimo amplesso. Nonostante le svariate condanne inflittegli negli anni per traffico di droga, tentato omicidio, furti e decine di rapine in banca, questo criminale narcisista fa perdere la testa all’intera Svezia. In particolar modo al genere femminile. Emblematica la doppia liaison con madre rapinata e figlia abbandonata sull’altare. O la storia con la rivoluzionaria Maria, con cui discute di Marx durante il sesso. Con la spagnola Ursula, con la belga Marijke, eccetera. 

Usando sempre gli stessi trucchi – e commettendo sempre gli stessi errori – Clark finisce immancabilmente con lo scaricare chi non gli serve più. Abbandona quindi compagne e amici con la stessa facilità con cui evade di prigione (17 volte pare, un record mondiale). Dagli anni Cinquanta della giovinezza – con un faccia a faccia a 18 anni con il Primo Ministro di allora, nella cui casa era entrato con effrazione – ai ’60 e ’70, nella sua gloria criminale. Fino al timido tentativo di mettere la testa a posto e di mettere su famiglia, negli anni Novanta. 

La quarta parete di Clark

Il passato in bianco e nero di quel ragazzino ribelle, nato nella povertà del dopoguerra, subito abbandonato a se stesso, tra strada e riformatori, gli rimane attaccato addosso. Sconvolgendo la sua esistenza e quella di chi gli sta accanto. In camera da letto, in banca, in prigione o girando il mondo su un veliero. L’ego di Clark è maniacale, ipertrofico e sfuggente, così come la narrazione, la macchina da presa e i filtri cambiati a seconda del decennio in cui si svolge la storia. Per non parlare della straordinaria interpretazione di Skarsgård, magnetico e strabordante, tra transizioni cromatiche e digressioni temporali.

Narratore in prima persona del sua stesso altisonante e improbabile spettacolo, Clark abbatte la quarta parete a forza di ritmati ammiccamenti. Tra il brillante e il melodrammatico, cade e rinasce senza soluzione di continuità nel suo colorato mondo criminal pop. Il frenetico montaggio spazia dal registro comico a quello iper realistico, dal tragico al grottesco, in un vorticoso caos che rispecchia la sua psiche teatrale. Un po’ mockumentary, un po’ Quei bravi ragazzi. Tra animazioni surreali e inserti musicali con le hit svedesi del tempo. E tanta autoreferenzialità, come quando Clark immagina i titoli di testa di un film su di lui.

Crudo ed esilarante caleidoscopio di banditesche scorribande, con la suggestiva fotografia dei paesaggi di Svezia, Belgio e Danimarca. O di impensabili fughe e evasioni. Da qui il fumettistico poliziotto Tommy Lindström, che lo insegue per mezzo secolo. La storia di Clark non poteva che essere ambientata in quel paese liberale, progressista e socialdemocratico che era la Svezia degli anni ’70. Il paese delle conquiste sociali. Tra cui il miglioramento delle condizioni carcerarie, in seguito allo sciopero della fame di migliaia di detenuti, guidato per l’appunto da Clark. Che però in segreto mangiava.

Sindrome di Stoccolma formato Netflix

La dissacrante, eccentrica ed autocompiaciuta ironia di Clark distingue totalmente questo crime da show come Breaking Bad o anche Ozark. Per intenderci, gli svedesi hanno coniato un termine – kändisbrottsling – per definire un gangster vip (come John Gotti o El Chapo, sebbene questi giochino in un altro campionato). Questa serie gioca decisamente sporco, inducendo lo spettatore ad empatizzare con lo spregiudicato manipolatore. Una sorta di Sindrome di Stoccolma formato Netflix.

Un’opera gratuitamente spudorata, quella di Clark. Eppure il debordante divismo che ne permea ogni episodio è in fondo la forma più onesta e diretta per raccontare la pazzesca storia di Olofsson, dal suo stesso punto di vista. Fedeli dunque allo stesso principio di anarchia esistenziale dell’autore protagonista. Che deforma ogni verità con una sovrabbondante accumulazione di parole, immagini e citazioni.

“Un giovane e avvenente ribelle. Una piaga per la società e per la polizia. L’incubo del cittadino medio e il sogno erotico di sua figlia”. Quest’immagine di sé stesso che egli ama proiettare è l’emblema di una gabbia narrativa da cui non intende evadere. Qui si sente al sicuro da recriminazioni e sensi di colpa. Ma, del resto, sarebbe in grado – qualora lo volesse – di uscire dalla prigione costruita con le sue stesse mani? Straziante la scena del compleanno del piccolo figlio, con Clark vestito da pagliaccio e la biografa – l’unica immune al suo fascino – che gli comunica il vuoto della sua esistenza, tutta votata alla fuga dalle responsabilità. Olofsson vorrebbe gettare la maschera. Ma non può, essendo rimasto intrappolato nella sua stessa frenetica e contraddittoria messinscena.

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Tags: autobiograficoClarkcrimeSindrome di StoccolmaSvezia
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