Love, Death & Robots è tornata con la sua stagione 4, uscita a maggio 2025 su Netflix. 10 nuovi episodi, il consolidato impianto produttivo e creativo alle spalle, la solita promessa di varietà e inventiva. Tutto bene, dunque?
No, perché stavolta l’eccitazione ha lasciato il posto alla delusione. Fino a ieri questa serie antologica d’animazione per adulti era sinonimo di sorpresa, sperimentazione e alto tasso di creatività: ora, invece, la sensazione dominante è di preoccupazione. Per la prima volta nella sua storia, Love, Death & Robots appare stanca, fiacca, priva di quella forza innovativa che ne aveva fatto il modello assoluto del formato super-antologico (insieme a Black Mirror).
Proprio l’analogia strutturale con Black Mirror ci dà però qualche elemento di conforto. Se la serie di fantascienza distopica, dopo stagioni in calando e alcuni momenti persino imbarazzanti, ha ritrovato la sua voce con un recente sorprendente rilancio, c’è ancora speranza anche per Love, Death & Robots. Nonostante una stagione 4 che è indubbiamente la prova più debole e trascurabile della sua storia. E ha lasciato l’amaro in bocca a chi, come noi, continua a pensare che questa serie abbia (avesse? avrebbe?) ancora moltissimo da dire al pubblico globale.
Assaggini di animazione globale: genesi e formula della serie
Love, Death & Robots non è semplicemente una serie antologica. Fin dal debutto nel 2019 si è presentata come un super-antologico, in cui ogni episodio è davvero autonomo e diverso da tutti gli altri. Non solo per trama, personaggi e ambientazione, ma per stile visivo, tecnica d’animazione e persino provenienza geografica. Una formula brillante e insieme “furba”, che ha permesso agli spettatori di assaggiare in pillole (o finger food, come abbiamo già scritto a proposito delle prime due stagioni) il meglio delle tendenze dell’animazione mondiale, senza dover affrontare la fatica di storie lunghe e articolate.
Qui, complessivamente, siamo a 45 episodi, appunto tutti (beh, quasi tutti) autonomi l’uno dall’altro. Bastano pochi minuti – la durata delle puntate va da 6 ai 21 minuti – per immergersi in mondi distanti e linguaggi sempre nuovi, capaci di incuriosire anche chi non si considera un “fan” del genere animazione.
A rendere poi davvero unico questo progetto è la scelta di affidare ogni episodio a team e studi diversi, provenienti da tutto il mondo. Gli statunitensi fanno la parte del leone, ma l’elenco degli studi coinvolti comprende team provenienti da mercati meno ovvi: Polonia, Ungheria, Russia, Spagna, Danimarca, Scozia, Francia. Oltre a Giappone, Inghilterra, Corea del Sud…
Così la serie è diventata anche un osservatorio delle migliori pratiche internazionali. Una sorta di “expo” permanente dell’animazione d’autore, fantascientifica e visionaria. Un universo narrativo e stilistico in costante mutazione, che nelle sue prime stagioni ha saputo alternare ironia, profondità filosofica, azione e surrealismo, mantenendo sempre alto il tasso di invenzione e la capacità di stupire.
Miller, Fincher e i padri creativi. Heavy Metal e la lezione dei grandi
Altro grande elemento di forza di Love, Death & Robots: una scelta tematica di sicura presa, attorno al trinomio Amore, Morte, Robot. Ogni puntata esplora così uno o più dei tre temi. Tanta violenza e tanto sesso (quest’ultimo soprattutto nella prima stagione). Assieme alla rappresentazione distopica del mondo futuro che ormai è la cifra dominante della fantascienza e di buona parte della narrazione d’oggi.
Dietro a Love, Death & Robots ci sono nomi che hanno segnato il cinema e la serialità contemporanea. Tim Miller, regista ed esperto di effetti speciali (già dietro Deadpool), e soprattutto David Fincher, autore ormai leggendario soprattutto al cinema (Seven, Fight Club, The Social Network, Zodiac…). Ma che per la tv ha realizzato la perla Mindhunter, cupo e tesissimo viaggio nel male dei serial killer. E racconto formidabile della nascita dell’Unità di scienze comportamentali del FBI.
L’ispirazione originaria va cercata nell’universo di Heavy Metal, la rivista e il film culto degli anni Ottanta, a loro volta eredi della rivoluzione visiva della francese Métal Hurlant. L’idea di fondo – storie corte, spesso violente o erotiche, animate da una vena di satira, inquietudine e visionarietà – è stata rivitalizzata per una nuova generazione. Con la libertà tematica e la “maturità” che una piattaforma come Netflix poteva garantire.
Fino a oggi, la scommessa era vinta: la serie è diventata un riferimento per chiunque cerchi un’animazione adulta, complessa e mai scontata, capace di ibridare cultura pop, fantascienza e filosofia senza mai diventare banale. Anche nella quarta stagione, Miller e Fincher figurano tra i produttori e registi – ma, come abbiamo già anticipato, il risultato questa volta non è all’altezza delle aspettative.
Love, Death & Robots: 3 belle stagioni, e il passo falso della 4
Vale la pena di ricordare brevemente il percorso che ha portato Love, Death & Robots a essere considerata una delle serie più innovative e influenti dell’ultimo decennio. Le prime tre stagioni (2019–2022) hanno saputo coniugare varietà stilistica e tematica con una qualità media sempre elevata. Proponendo 35 episodi largamente notevoli.
La prima stagione aveva fatto scalpore per l’uso coraggioso della violenza, del sesso e della satira ma anche per la capacità di commuovere con vette altissime (“Zima Blue”). La seconda era riuscita a consolidare la formula, puntando su storie più filosofiche e capaci di portare idee oltre a visioni molto coerenti: “Pop Squad”, “Snow nel deserto”, “Il gigante annegato”. La terza, uscita nel 2022, aveva forse raggiunto il miglior equilibrio tra intrattenimento, umorismo, poesia e riflessione. Episodi come “The Very Pulse of the Machine”, “Swarm”, “Jibaro” e “Bad Travelling” hanno lasciato il segno, alternando fantascienza hard, surrealismo visionario e satira feroce.
Con queste premesse, il pubblico si aspettava un ulteriore salto di qualità, o almeno la conferma di una grandezza ormai consolidata. La stagione 4 di Love, Death & Robots è, purtroppo, la più debole di tutte. Non solo manca di veri picchi qualitativi, ma sembra quasi incapace di giustificare la sua esistenza nell’economia complessiva della serie. Dieci nuovi episodi che non aggiungono nulla di memorabile, e che anzi fanno rimpiangere lo slancio delle annate precedenti.
È una stagione che non lascia traccia: nessun episodio davvero indimenticabile, nessun colpo di scena o invenzione narrativa o visiva che valga da sola la visione dell’intero “volume”. Solo 2–3 buone puntate, nessuna all’altezza dei vertici storici, molte stanche, qualcuna persino imbarazzante.
Love, Death & Robots 4: le puntate migliori. “Golgotha”, “The Other Large Thing” e poche altre
In un panorama mediamente spento, qualche episodio riesce comunque a emergere, anche se senza mai raggiungere l’eccellenza delle stagioni passate. Il vertice della stagione 4 di Love, Death & Robots è senza dubbio “Golgotha”, diretto da Tim Miller e scritto da Joe Abercrombie: un racconto affascinante e ambiguo, che costringe lo spettatore a interrogarsi sulle dinamiche tra fede, alieni e fanatismo, e regala una delle poche esperienze davvero coinvolgenti del volume. Sullo sfondo della riflessione sullo specismo e sulla propensione umana a sterminare le altre creature senza troppi pensieri.
Si difende bene anche “The Other Large Thing”, diretto da Patrick Osborne (già autore dei celebri “Three Robots”), che torna con una storia che è di fatto un possibile prequel della amatissima saga dei robot turisti sulle tracce dell’antica civiltà umana, ormai distrutta. Qua assistiamo, forse, alla genesi del disastro, quando un gatto insofferente, ambizioso, sarcastico e sprezzante (e a cui non per caso dà voce in originale il grande John Oliver) trasforma un robottino domestico in un agente dell’affrancamento dagli umani…
Discreta anche “Spider Rose”, ambientata nello stesso universo della “Swarm” di stagione 3, tratta anch’essa da un racconto di Bruce Sterling: e che però non raggiunge l’armoniosa profondità dell’episodio del 2022. In un altro anno “Close Encounters of the Mini Kind”, simpatico esercizio di stile nel filone miniaturizzato di “Night of the Mini Dead”, sarebbe finita tra le trascurabili: in questa stagione è una delle meno peggio.
Grandi speranze le avevamo per il ritorno di Emily Dean, che aveva firmato il miglior episodio della stagione 3 (“The Very Pulse of the Machine”). La nuova “For He Can Creep” è una fiaba gotica fascinosa, ma nulla più.
Le puntate peggiori: un inedito senso di stanchezza
Purtroppo, la maggior parte della stagione 4 di Love, Death & Robots si colloca ben al di sotto della soglia di sufficienza. Esercizi di stile che non dicono nulla di nuovo, prove di comicità che scadono nel banale, tentativi di epica fantascientifica che non riescono ad affascinare né a coinvolgere. Il caso più clamoroso resta l’episodio d’apertura, “Can’t Stop”, firmato incredibilmente da David Fincher. Un esercizio di animazione con i Red Hot Chili Peppers-marionette che cantano la canzone del titolo, senza una vera idea, che non porta da nessuna parte. La guardi fino alla fine perché non puoi credere non ci sia un twist, e invece niente, si saranno addormentati facendola.
“Smart Appliances, Stupid Owners” è un mockumentary che si connette (stesso autore) all’ironia surreale dei “Three Robots”, ma risulta stanco e prevedibile. Episodi come “400 Boys”, “The Screaming of the Tyrannosaur”, “How Zeke Got Religion” e altri, si perdono in narrazioni confuse, poco incisive o prive di reale tensione emotiva. Non mancano i momenti grotteschi, ma mancano totalmente la scintilla e la visione che avevano reso Love, Death & Robots una serie di culto.
Un passo falso, e una delusione cospicua. Che costringe a chiedersi se la formula sia arrivata al capolinea o abbia solo bisogno di una pausa di riflessione – come è già accaduto, appunto, a Black Mirror. Noi non perdiamo la speranza.
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