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WeCrashed, se il capitalismo è un gioco di prestigio

Jared Leto e Anne Hathaway giganteggiano nella miniserie Apple TV+ basata su una storia vera: quella della fulminea ascesa e dell’ancora più rapido collasso di WeWork

di Jacopo Bulgarini d'Elci
22/05/2022
in Articoli, Artwork
Cover di WeCrashed per MONDOSERIE
672
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C’è qualcosa che la televisione sta cercando di dirci sullo stato di salute del capitalismo contemporaneo? A guardare WeCrashed, nuova serie da poco conclusa su Apple TV+, verrebbe da dire decisamente di sì. Specie se mettiamo lo show con Jared Leto e Anne Hathaway, ispirato a una clamorosa storia vera, accanto ad altre uscite recenti o recentissime. 

WeCrashed, come vedremo, racconta la fulminea ascesa e l’ancor più rapido collasso di WeWork. Ma altre imprese implose drammaticamente sono di recente finite non solo sotto i riflettori. Si sono pure viste tradotte nella forma più popolare e capillare di mediatizzazione e culturalizzazione contemporanee: uno show televisivo. Un paio di esempi (anche su questi torneremo in fondo). The Dropout, che mette in scena il pazzesco collasso di Theranos e della sua ideatrice, Elizabeth Holmes. Una storia già al centro del documentario The Inventor. O Inventing Anna, su un altro clamoroso caso di manipolazione, quello della finta ereditiera Anna Delvey / Anna Sorokin. 

Sono tutte uscite degli ultimissimi mesi. E cos’hanno in comune? Una rappresentazione del capitalismo a dir poco problematica. Ma a stupire non è che raccontino dei fallimenti. A stupire è il clima di follia quasi allucinatoria che mostrano. Quello di imprese chiaramente deliranti – e che però nel mondo iperconnesso, accelerato e immediato d’oggi rischiano incredibilmente di riuscire.  

WeCrashed, com’è la miniserie con Jared Leto e Anne Hathaway?

Partiamo da WeCrashed. La miniserie creata da Drew Crevello e Lee Eisenberg è andata in onda su Apple TV+ in questa primavera. Lo show traduce in immagini un podcast di successo. WeCrashed: The Rise and Fall of WeWork. Podcast che aveva appunto indagato e narrato ascesa e caduta di WeWork, tutta nell’arco di un rapido decennio. Nata nel 2010 a New York come startup che crea spazi di coworking particolarmente informali, sociali, creativi, WeWork a inizio 2019 era un’azienda “unicorno” valutata 47 miliardi di dollari. Pur avendo solo accumulato, anno per anno, perdite consistenti. Ma nel settembre dello stesso 2019, dopo una serie di burrasche, il valore era precipitato a “solo” una decina di miliardi. 

Jared Leto dà corpo, faccia, voce ad Adam Neumann, l’ambizioso fondatore della compagnia. Anne Hathaway è la moglie Rebekah, partner anche professionale dell’imprenditore-rockstar e ispiratrice della filosofia della compagnia: noi non affittiamo spazi di coworking, “eleviamo la coscienza del mondo”. Pretesa che, almeno nel racconto seriale, finisce per diventare la principale causa del collasso aziendale. Quando la realtà si incarica di presentare il conto. 

Va detto che i due attori americani infondono nei loro personaggi una vitalità e una forza straordinari. Leto (che ha, incredibile dictu, 50 anni) si immerge nell’israeliano Adam, per l’ennesima volta trasformandosi anche fisicamente con notevole efficacia e dedizione. La Hathaway è per certi aspetti ancora più generosa, rendendo con molte sfumature un personaggio che è difficile non detestare. La serie, produttivamente ricca e assai ben girata, consta di 8 episodi lunghetti, vicini ai 60 minuti. Ma la verità è che sembrano durare anche di più, ed è il principale limite dello show: aver diluito e tirato in lungo, in scrittura, un intreccio che in 6 episodi avrebbe retto molto meglio.  

WeWork: una storia incredibilmente vera

Ma la ragione per cui è difficile staccarsi da WeCrashed alla fine non sono i pur fantastici attori. O le ambientazioni fascinose, tra New York e altri luoghi del pianeta. È proprio la vicenda in sé. Che è così bella, folle, incredibile e insieme irritante da risultare persino difficile da credere – se non fosse assolutamente vera.

Come ha fatto WeWork a crollare in pochi mesi? Perdendo miliardi di dollari. Lasciando a mani vuote centinaia di dipendenti che avevano accettato di dedicarsi per anni all’azienda lavorando 15 ore al giorno a salari da fame. Nella convinzione di avere per le mani, grazie alle stock options, un pensionamento d’oro a 30 anni. E causando ingenti perdite ad alcuni dei maggiori fondi e banche del mondo. Che in WeWork avevano non solo creduto ma infuso miliardi e miliardi di dollari. 

In realtà, alla fine della visione della serie, qualche dubbio a me è rimasto. Mi è rimasto perché fin dall’inizio non sono riuscito a capire cosa esattamente vendesse l’azienda. E come potesse pensare di paragonarsi, in termini di innovazione socio-tecnologica, a soggetti come Amazon, Apple, Uber. In fondo, WeWork vendeva (o meglio affittava) appunto spazi di lavoro condivisi. Una scrivania in un grande spazio aperto. Con servizi condivisi, relax, aree sociali. E uno spirito arrembante, quello secondo il quale basta crederci per riuscire ad arrivare ovunque (“manifestalo!”, dice Rebekah al marito ogni volta che deve riuscire a comunicare un’idea, come se Adam avesse il potere di trasformare l’aria in oggetti concreti). 

A furia di espandersi forsennatamente, perdendo milioni e poi miliardi ogni anno per alimentare una crescita “superiore a quella di Amazon”, WeWork nel 2019 si trovò ad essere probabilmente il maggior proprietario o gestore di immobili del mondo. Con centinaia di spazi in decine di Paesi. 

WeCrashed: dal trionfo alla caduta 

Ma poi il castello di carte collassò. Quando, su pressione degli investitori istituzionali (tra cui la SoftBank del mitico “Masa”, Masayoshi Son), WeWork provò a costruire una IPO (Offerta Pubblica Iniziale). Il tentativo di collocazione delle proprie azioni sul mercato richiede che un’azienda si presenti, compilando alcuni documento formali, costruendo un profilo che ne esalti la solidità, redditività, affidabilità, e ovviamente le prospettive di crescita. 

Quello che accadde fu invece un disastro. Nella convinzione di poter essere più forti del sistema, Neumann e i suoi rigettarono il linguaggio e le prassi della finanza. Presentando la compagnia come un soggetto che vendeva sensazioni (feeling), promesse, un’idea di reinvenzione del mondo. In cui gli spazi di lavoro non avrebbero esaurito l’ambizione: al loro fianco ecco le “scuole”, i luoghi in cui vivere, gli spazi per divertirsi, per fare esercizio, in cui investire. Il Wall Street Journal sbertucciò l’operazione. Gli investitori si ritirarono. SoftBank, per limitare le perdite, convinse Neumann a uscire dal CdA dell’azienda. Non proprio malamente, visto che l’eccentrico imprenditore si portò a casa 1,7 miliardi di dollari di buonuscita. E una consulenza annua da diversi milioni di dollari. 

Il New York Times ha descritto il fallito tentativo della società di quotarsi in borsa, e le relative turbolenze, come “un’implosione diversa da qualsiasi altra nella storia delle start-up”. Attribuendola al discutibile metodo di Neumann e ai soldi facili precedentemente fornitigli dalla SoftBank di Masayoshi Son, che appare come un personaggio ricorrente in WeCrashed. In questo formidabile ed esilarante articolo di fine 2019, sempre il New York Times racconta l’incredibile uscita di scena di Adam, capace di atterrare in piedi (scalzi). Come un prestigiatore. Come un ballerino. 

Carisma, manipolazione, follia: il capitalismo oggi

Ma è proprio questo il punto. La lezione più sconcertante di WeCrashed è il quadro che ci restituisce del capitalismo. Siamo abituati a pensare alle storie di successo imprenditoriali come frutto di uno sforzo razionale. Certo, basato su un’intuizione. E poi su tenacia, volontà, magari anche fortuna. Ma comunque in un contesto dotato di senso: un prodotto funziona perché ha caratteristiche rivoluzionarie, o perché colma un vuoto, soddisfa una domanda, suggella una promessa, incarna un desiderio. 

Ma le nuove storie del capitalismo digitale al tempo dell’informazione in tempo reale e dei social non sono più quelle – pur recenti – alla Bill Gates o alla Steve Jobs. Sono storie che mescolano manipolazione, allucinazione, abbagli collettivi. In cui le istituzioni finanziarie, private e pubbliche, dalle banche ai controllori ai cosiddetti esperti, si fanno regolarmente abbindolare. 

Come mai? Perché il fattore dominante non è neppure più la profittabilità. È, con un curioso ritorno sulla scena, un vecchio attore della commedia umana: il carisma. Adam Neumann è un fratello di Elizabeth Holmes, che trasformò un’idea audace in una compagnia medica da miliardi di dollari, Theranos: salvo vederla collassare quando divenne chiaro che il prodotto “rivoluzionario”, semplicemente, non funzionava. Storia raccontata dal documentario The Inventor, di cui abbiamo scritto qui. E ora dalla serie The Dropout, con Amanda Seyfried. Ed è anche un fratello della Anna Sorokin / Anna Delvey al centro di un’altra grande e folle storia di truffe e inganni: Inventing Anna, cui abbiamo dedicato una puntata del podcast. 

Il tema comune è un carisma che piega la realtà. Un mondo in cui un’idea più è folle e più rischia di funzionare. Pensavamo il sistema economico fosse serissimo: si mostra fragile, vulnerabile, manipolabile. Un’illusione. Un gioco di prestigio.

 

La storia di Elizabeth Holmes nel documentario The Inventor.

The Inventor: quando anche il sangue mente

La storia di Anna Sorokin / Delvey in Inventing Anna. 

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Tags: biopic e storie verecapitalismofinzione & realtàWeCrashed
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Jacopo Bulgarini d'Elci

Jacopo Bulgarini d'Elci

Fondatore e direttore del progetto MONDOSERIE, prende le serie terribilmente sul serio. In una vita precedente è stato assessore alla cultura della città di Vicenza. In altre e non meno reali esistenze, si è perso sull’isola di Lost, ha affrontato i propri gemelli oscuri in Twin Peaks, ha avuto il cuore spezzato da Breaking Bad. Autore e critico tv, scrive interventi sulle trasformazioni dell’immaginario pop (Doppiozero), cura una rubrica settimanale su The Week (inserto domenicale dei giornali del gruppo editoriale Athesis), tiene conferenze, coordina e realizza pubblicazioni. Soprattutto, guarda e riguarda show da quasi 30 anni.

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