Vorrei dire che il motivo per cui mi sono sorbito tutte e dieci le puntate di The Wilds, uscite a dicembre 2020 su Amazon Prime Video, è per potervi con più cognizione di causa convincere a non farlo. Ma la visione di una puntata o due avrebbe prodotto lo stesso consiglio.
È scattato un meccanismo diverso, di cui ha senso parlare profittando di una serie di cui invece non serve parlare a lungo (basta dire questo: non guardatela, a meno che non abbiate molto tempo libero; oppure una passione davvero estrema per il genere survival combinato ai drammi adolescenziali al femminile, e/o per gli esperimenti tecno-sociologici del tipo “cosa succederebbe se…”).
Nell’epoca in cui l’offerta apparentemente non ha limiti e lo spettatore passa ore a cercare di scegliere tra troppe possibilità, è interessante riflettere su cosa ci fa continuare a guardare show che sappiamo essere deludenti, ma che nondimeno non riusciamo a interrompere.
L’influenza duratura di Lost (sulle serie, e su di noi)
Nel caso in questione è probabile si tratti dell’impatto generazione e fondativo che ha avuto Lost, uno dei capisaldi della moderna serialità. Tale è stata la sua influenza, e il piacere che ha saputo costruire nelle sue sei stagioni (che non sono invecchiate di un giorno), da indurre anche lo spettatore smaliziato a cercare di ritrovarne lo spirito. A volte disperatamente. E persino con prodotti che ne sono, più che figli legittimi, cloni mal riusciti. Su quell’isola, ogni tanto, “we have to go back”, come gridava Jack in un momento di svolta del capolavoro di Lindelof, Abrams, Lieber.
The Wilds, serie creata da Sarah Streicher per Prime Video, è in effetti una sorta di clone imbastardito. Di Lost scopiazza grossolanamente la premessa narrativa (un gruppo di naufraghi deve risolvere il mistero del proprio incidente), l’ambientazione (un’isola deserta), l’idea generale dei caratteri (ciascuno con i propri demoni) e lo schema drammaturgico principale (l’uso dei flashback).
Il tema, qui, ha però una variante anagrafica: è un gruppo di teenager tutto al femminile che dovrà trovare il modo di sopravvivere, capire cosa sia successo, tornare alla civiltà. Cosa che richiama una serie (bruttina) della prima metà del 2019, The Society, in cui si raccontava di una ricca cittadina americana da cui, improvvisamente, scompaiono gli adulti. Ovviamente sullo sfondo, ma proprio tanto sullo sfondo, si staglia l’ombra sempiterna del classico Il signore delle mosche, grande romanzo d’esordio del premio Nobel William Golding.
The Wilds: un involontario manifesto anti-femminista?
Ho scritto che il gruppo di teenager “dovrà trovare il modo di sopravvivere”, ma sarebbe più giusto dire “dovrebbe”: nel senso che non fanno niente di quello che ci si aspetterebbe da chi si trovasse naufrago su un’isola deserta. Sporadica è la preoccupazione per cibo, acqua, fuoco. Pressoché assenti i tentativi di organizzare o facilitare il proprio ritorno a casa. Inconsistente la ricerca di spiegazioni sui misteri dell’isola, del viaggio che le ragazze stavano facendo, delle curiose coincidenze che potrebbero far sospettare una macchinazione di qualche tipo.
E questo nonostante, a differenza appunto di Lost, vi sia dietro ogni stranezza una spiegazione, quella appunto dell’esperimento sociologico e formativo. In compenso, c’è abbondanza di drammi adolescenziali, di crisi di nervi, di recriminazioni: non un gran manifesto femminista, in paradossale contrasto con le intenzioni testuali e metatestuali della seria.
Per carità, non siamo certo ai livelli di un’altra serie malamente parassitaria di Lost, The i-land, una vera schifezza come non capita di frequente di vederne. Ma si può rinunciare preventivamente alla seconda stagione, già annunciata, senza troppi pensieri.
Giudizio: nostalgicamente deludente.
Una versione parziale di questo articolo è stata precedentemente pubblicata il 20 dicembre 2020 su The Week, settimanale del gruppo editoriale Athesis.