Citadel (Prime Video, 2023) è una serie multimilionaria partorita dai fratelli Russo, che non hanno nessuna parentela con Carmen Russo ma stanno dietro ad altri eroi di maggiorati poteri. Sono gli autori di varie pellicole MCU (cioè, dell’Universo Marvel), quasi tutte riuscite, tra cui il capolavoro Avengers: Infinity Wars.
Le premesse di Citadel erano invitanti assai: storie di servizi segreti segretissimi, quindi risse pubbliche clamorose a colpi di arti marziali perfette, treni, macchine, aerei, sommergibili, palazzi, città che esplodono, gadget tecnotronici a go-go, tanto budget e infilato da qualche parte pure Stanley Tucci.
Sulla carta, come dire di no? E pazienza se il protagonista era Richard Madden, cioè Robb Stark (il più belloccio e babbeo dei pretendenti al Trono di spade, e perciò trucidato per direttissima con la famiglia e pure la discendenza non-nata), assieme alla ex Miss Mondo indiana Priyanka Chopra, moglie di un Jonas Brothers a caso.
In realtà, Citadel deluse parecchio. Trama ad encefalogramma piatto, intreccio via via sempre più risibile, personaggi che non andavano da nessuna parte, colpi di scena sciatti sino all’insolenza.
È chiaro che quando è stato annunziato che vi sarebbe stato uno spinoff italiano di Citadel, e cioè questa Citadel: Diana uscita a ottobre 2024 su Prime Video in 6 episodi, lo spettatore attento è corso ai ripari. Meno soldi. Meno effetti. Quindi meno aggeggi psicotronici, meno macchine e case che esplodono. Nessuno Stanley Tucci in vista. E magari perfino sceneggiatori italiani. Aiuto.
Citadel: Diana è meglio del Citadel originale…
E invece: Citadel: Diana è un prodotto migliore della Citadel originale. Incredibile ma vero.
Di chi è il merito? Non sappiamo dire, anche se sospettiamo sia una mistura di ingredienti autoctoni. Certo, c’è il ruolo svolto dal volto triangolare, piramidale, conico, poligonale di Matilda De Angelis, il cui magnetismo a questo punto non può essere sottovalutato da nessuno.
C’è tutta questa ambientazione lombarda, tra la megalopoli meneghina, il Lago e i monti brulli del Canton Ticino. Che tuttavia non sappiamo quanto risuoni tra quanti non abbiano vissuto in terra ambrosiana.
C’è una sequenza d’azione molto riuscita nel Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina (libero consorzio comunale di Trapani: le province in Sicilia hanno preso questi nomi fantastici), che contribuisce a fornire finalmente una linea guida di riciclo per l’arte contemporanea tutta: metteteci dentro dei superagenti segreti che si sparano, un significato così magari lo si trova evitando l’invio verso la spazzatura.
C’è l’interpretazione di Maurizio Lombardi, che affronta la parte del gelido genio del male con la stessa cifra composta, frigida, implosiva con la quale interpretava il cardinale gay in The Young Pope di Sorrentino: in effetti, quanta distanza interiore vi è tra genio del male e cardinale della lobby? (Il video qui linkato è un remix di un utente che aggiunge una nota irriverente e discutibile, ma è l’unica clip che si trova in rete che mostra la capacità del Lombardi nella serie papalina).
Insomma: ci sono motivi per ritenere il derivato italiano migliore dell’originale americano. Essì.
… pur essendo piena di falle clamorose
Tuttavia, non è che si rimane insensibili dinanzi alle falle clamorose di Citadel: Diana. La De Angelis quando parla (guardando l’intensità dei suoi primi piani, non si poteva evitare? Secondo noi sì) tende a terminare ogni frase con languidi sussurri borderline ASMR.
Riguardo Filippo Nigro ci siamo posti negli anni domande ontologiche, ma abbiamo scoperto che alle donne piace molto, perché, disse un’amica, «misto unico di innocente e di maschile». Ciò detto, il suo accento romano in un film per lo più ambientato a Milano non può non farci temere che da un momento all’altro non sbotti con il mantra del capitolino finito nella capitale morale, cioè «la cosa mejo de Milano è il treno pe’ Rroma» o il più classico, apprezzato anche dalle tifoserie calcistiche, «c’avete solo ‘a nebbia».
Un discorso dialettologico va fatto anche per un personaggio minore, ma importante per la storia, il primogenito della Famiglia Zani Enrico. Gli Zani, dove una seconda enne avrebbe fatto ancora più Lombardia tradizionale, rappresentano una sorta di calco lontano dei Beretta (che peraltro sono bresciani) ma infinitamente più potente, in più con la casa al Lago come gli stilisti vari e i Ferragnez (che sono di Cremona e Rozzano) e una passione per i levrieri (come i Trussardi, che son di Bergamo).
L’Enrico Zani, l’erede designato che si vede in un solo episodio, parla con un accento che sa già più di Val Trompia, di campagna longobarda profonda, mentre il fratello, che è il vero coprotagonista della serie, parla come un gagà milanese random.
C’era un italiano, un francese, un tedesco…
Tutti insieme, nella somma di una recitazione spesso imbarazzante, si ritrovano a dire la parola Citadel, che è il nome della super-organizzazione fatta da spezzoni di servizi segreti (che in altra epoca si sarebbero giornalisticamente definiti «servizi deviati») dei Paesi democratici (quindi, i buoni: no?) contro Manticore, che è invece la super-organizzazione segreta delle potenti famiglie di tutto il mondo, che degli Stati democratici non si fidano moltissimo (avranno le loro ragioni?).
Il problema è che questa parola, Citadel, è pronunziata all’inglese anche durante i discorsi tra italiani. Tecnologia Citadel. Agenti Citadel. Guerra contro Citadel. Sempre detto sitadel. Sitadel. Sitadel. Ad una certa, non se ne può più: ma perché non dicono Cittadella e basta? Non sono il capitolo italiano di un’organizzazione di tradizione famigliare? Dire Cittadella fa loro schifo perché si ricordano del paesino cinto da mura medievali fuori Padova? Credono che la cosa incasinerebbe la SEO?
Stessa cosa per Manticore. Ma perché devono continuare a ripetere, nel mezzo di frasi in italiano, la parola in inglese? Si rendono conto che, ad una vocale di distanza, c’è una parola italo-greca bellissima, chimerica, “manticora”?
Evidentemente no, anche perché in effetti Citadel: Diana procede per scene di poliglossia patologica, dove chiunque parla almeno quattro lingue (italiano, francese, inglese, tedesco) che usa dissennatamente nella stessa conversazione: uno fa una domanda in inglese e l’altro gli risponde in italiano, uno dice una cosa in tedesco e l’altro replica in francese. Un Erasmus glottologico compulsivo a tratti inspiegabile.
Di particolare interesse in questo senso gli incontri dei vertici nazionali di Manticore (Italia, Francia, Germania) in un bunker in Isvizzera, dove, tra conversazioni in questo esperanto disperante, i tre capi non si rendono conto di rappresentare la struttura primigenia di quantità di antiche barzellette, a partire da quella del famigerato Fantasma Formaggino: c’era un italiano, un francese e un tedesco…
Il mondo iper-semplificato di Citadel: Diana
Lo scrivente confessa, ad un certo punto, di aver pensato di poter riuscire a vedere un’intera miniserie in sei episodi senza una scena di sesso. Questa sarebbe stata una notizia clamorosa. E invece: eccoti che verso la fine, zac, scatta la scena di stantuffate pelviche con musichetta sdolcinata (il trend: prendi una canzone anni Ottanta, togli il ritmo e rendila melensa), dove lo stempiato riccio Zani azzanna la zinna della neodiva come un Nanni Moretti qualsiasi.
È rilevante, ad ogni modo, osservare la visione semplicistica e rivelatrice che Citadel: Diana dà della realtà italiana.
Gli Zani, quando non mandano i figli in giro con commando vestiti con caschetti e corpetti come in un manga scadente, controllano il governo italiano (considerato come posto da idioti) e gli stanno per far liberalizzare la vendita delle armi. La politica del 2030 (data in cui è ambientata la serie), quindi, è corrotta totalmente. Coerentemente col trend che abbiamo analizzato in questa riflessione sulla rappresentazione “dark” della politica tra cinema e tv.
Il Duomo di Milano è stato demolito in un attentato terroristico, ne rimane solo qualche rovina gotica: per qualche ragione, l’attentato fa versare lacrime alla protagonista, che non ha il physique du role di una frequentatrice delle Sante Messe quotidiane in cripta delle 8:30.
L’avvento di un futuristico regime para-totalitario
Tuttavia, c’è in Citadel: Diana un disastro peggiore della distruzione della cattedrale di Santa Maria nascente: a pochi metri, con il compositing hanno aggiunto, per ragioni non specificate, un cubo che sovrasta e unisce le due parti del Palazzo dell’Arengario. Perché? Pecché?
Almeno, pensa lo spettatore mediolanofilo, non hanno toccato la Torre Velasca… Tuttavia non sono stati in grado di evitare l’altro grande capolavoro della Milano primo-Novecento, il tripudio assiro-babilonese della Stazione Centrale: qui c’è un cortocircuito, perché la piazza antistante, Amedeo d’Aosta, è libera dal traffico, da gente che spaccia e si picchia e scugnizzi che tentano di borseggiarti – è infatti piena di polizia in tenuta antisommossa, una grande costante degli esterni della serie, che dovrebbe significare l’avvento di un regime para-totalitario in Italia.
Il problema è che, appunto, i celerini in armatura che in Citadel: Diana spuntano ovunque sembrano bonificare anche zona Garibaldi-Corso Como, e non solo dagli spacciatori (quelli batmanicamente cacciati dal famoso poliziotto anti-cocaina Angelo Langè immortalato in una allarmante docu TV e in nel film con Raoul Bova Sbirri) ma pure dai ragazzi che vi si affastellano nella speranza di vedere una velina o un calciatore.
Quindi, «vogliamo i colonnelli» del futuro? La domanda esce fuori tremenda: in questo avvenire tecnologico, il colonello Automaticòs del film con Tognazzi, sarà, letteralmente, automatico? Golpe colonnello AI per l’Italia?
La Milano lucente e artefatta di Citadel: Diana (e della realtà)
La città in Citadel: Diana, in effetti, non pare passarsela malissimo. Nonostante la trama oscura che vive nel profondo, la facciata è bella, bei locali, begli appartamenti, bei palazzi – se vi piace il genere di sensazione che danno certe visioni dell’architettura fascista, così come poi riprodotte in film para-fantascientifici come La Decima Vittima – bella gente, bei vestiti, belle acconciature, belle macchine, bello tutto. È la Milano da bere, divenuta Milano della moda, che infine è divenuta qualcos’altro, ma con la ricercatezza, l’elegantoneria oramai installata di default ovunque.
Una città, di fatto, interamente, irreversibilmente ferragnizzata. Al punto che nemmeno stragi e terrorismo e repressione della polizia possono toglierle la patina lucente ed artefatta.
Quanto all’incubo di sorveglianza, sappiamo che in verità Milano già sembra inglobata da una dimensione di distopia totalitaria.
Già con l’Expo, coinciso con i mesi di ascesa irresistibile dell’ISIS, scendere o salire da un treno della Centrale è divenuto un processo di scrutinio: guardiani, barriere, poi barriere elettroniche semoventi tra i binari e Milano. Lo stesso dicasi per la metro: i vecchi tornelli (che raramente si sono visti scavalcati da qualcuno: Milano non è mai stata la Nuova York de I Guerrieri della Notte, almeno fino a poco fa) sostituiti con plexiglas, neon cangianti, telecamere e schermi ipertecnologici che registrano quando entri o esci. Sconsigliamo di provare a farlo se sei con un bambino, che in teoria non paga: se passi il biglietto magnetico la parte si apre, lui passa, ma non c’è verso che la macchina capisca che poi dovete passare voi. Non che nessuno abbia mai immaginato che Milano sia una città amica delle famiglie…
Caos e sorveglianza: il nostro futuro?
Fuori dal Duomo, gente che ti controlla le borse e transenne con i codici QR per prenotare digitalmente la visita: al momento sembra che chi dice di entrare per volervi pregare non sborsi nulla, ma non sappiamo quanto durerà. Però, i negozi, i locali sono tutti bellissimi, rifatti – pardon, passati sotto restyling – pieni di luce e di design, ancorché vuoti. Come si diceva: avvenente e vacua, se non oscura, come un’influencer controversa.
Come tutta questa trasformazione impatti sulla sicurezza il lettore può dedurlo dai giornali, dove non manca giorno che non vi sia una VIP che si lamenta di essere stata seguita o aggredita pure a Brera o in altri quartieri centrali.
Abbiamo quindi l’insieme contraddittorio – una manticora, tecnicamente, sì – di caos e sorveglianza unite nello stesso spazio sociale. È quello che in America, oramai un secolo fa, aveva teorizzato lo scrittore Sam Todd Francis (1947-2005), e che di fatto pare avverarsi sotto i nostri occhi ogni giorno di più. Più tecnologia, più controllo capillare e tuttavia più senso di insicurezza, se non di ingiustizia: la vita urbana odierna sembra andare così. Proprio come in The Wire.
Se ci pensate, l’anarco-tirannia in atto è già di per sé una sceneggiatura fantascientifica pazzesca, ancorché reale. Ma certo non possiamo chiedere agli sceneggiatori italiani di capirlo, e tantomeno ai responsabili dei servizi di streaming di volerlo includere nei loro prodotti.
Se si vuole tratteggiare una distopia sconvolgente, disegnare un incubo totalitario che incombe vicino a noi, non c’è bisogno di bombardare il Duomo di Milano: basta metterci davanti dei codici QR.
Giudizio critico: Citadel: Diana è artefatto quanto ricco, l’unica profondità possibile è il volto della De Angelis. Ma si lascia in qualche modo guardare. Ed è meglio della serie madre americana.
Spionaggio e geopolitica: Jack Ryan