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Caleidoscopio, originale girandola di colorati clichè

L'assai curata serie Netflix con Giancarlo Esposito prova a inaugurare un nuovo modello di visione "personalizzata": ci riesce?

di Livio Pacella
15/03/2023
in Articoli, Artwork
Cover di Caleidoscopio per Mondoserie
183
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Caleidoscopio (Kaleidoscope) è una miniserie del 2023 targata Netflix, creata da Eric Garcia e prodotta da Ridley Scott (con la sua Scott Free Productions). Otto episodi da 45 minuti ciascuno, di genere crime, o meglio: heist movie. 

La peculiarità – senza dubbio innovativa, almeno sulla carta – di questo prodotto seriale è, come efficacemente evocato dal titolo, la sua particolare struttura narrativa. Struttura, per dirla in breve, articolata in modo tale da permettere una diversa visione di tutti gli episodi secondo sequenze arbitrarie, lasciate alla scelta del singolo spettatore. Ad ogni capitolo di Caleidoscopio corrisponde infatti un titolo cromatico (bianco, giallo, rosso, verde, nero…) – esplicitando il colore che sarà ricorrente nella puntata in questione. 

E generando in tal modo otto frammenti che si possono idealmente ricomporre in senso orizzontale, ogni volta in modo differente. 

Tessere di un puzzle che, al di là dell’ordine di successione con cui vengono poste sul tavolo, danno alla fine sempre la medesima immagine complessiva. Questa intuizione potrebbe sembrare addirittura rivoluzionaria. In teoria. E invece, un poco come avvenne per il lungo episodio speciale Bandersnatch (Netflix, 2018), facente parte della serie Black Mirror (serie invece a tratti fenomenale), in cui lo spettatore era chiamato a prendere decisioni al posto del protagonista, influenzando così direttamente il corso della storia, anche qui qualcosa non ha funzionato. E la tanto decantata magia non ha mai avuto luogo.

Il genere heist e le sue componenti

Perché? Nel caso di Bandersnatch, che riportava sullo schermo la vecchia logica dei librogame (o libri gioco) d’avventura e fantasy popolari negli anni ’80, ad esclusivo uso e consumo dei nerd di tutto il mondo, perché per gran parte del racconto si trattava di scelte assolutamente marginali (come la prima: se il personaggio debba mangiare per colazione cereali di una marca o di un’altra). Quando invece, verso la fine del racconto, le scelte si facevano più interessanti, ormai la storia era arrivata alla fine e si trattava soltanto di concluderla in un modo o in un altro.

Per quanto riguarda il nostro Caleidoscopio, il discorso è di tutt’altra natura, e parte dalla particolarità del genere in questione: l’heist (letteralmente rapina). Dal bianco e nero, passando per la personalissima visione tarantiniana (Le Iene) e la saga Ocean’s di Soderbergh, fino alla più recente serie spagnola La Casa di Carta, questo sempreverde sottogenere crime non è in fondo mai passato di moda né ha mai smesso di evolversi stilisticamente.

La struttura narrativa di base (come le strutture morfologiche di Propp per il mondo delle fiabe) è rimasta negli anni invariata, comprendendo alcuni elementi fondamentali. L’ideazione del colpo (solitamente un colpo grosso), la riunione della banda, le ragioni personali o affettive dei componenti, il colpo in sé – in cui qualcosa va sempre storto, portando il rischio di fallimento ai massimi livelli – e il dopo.

Talvolta l’accento va sull’apparente impossibilità del colpo (che quindi spesso diventa ‘la rapina del secolo’), talaltra sul doppio o triplo gioco di uno o più componenti della banda. Talvolta la spericolata azione criminosa nasconde nobili motivazioni, talaltra a guidarla è un sentimento di vendetta (le due cose non escludendosi affatto).

Un Caleidoscopio che gira a vuoto

Insomma, in gioco vi è sempre una ricca molteplicità di varianti, di tipo narrativo o stilistico. Ed è proprio su queste varianti che si basa la forza del film o della serie di turno. Perché è evidente come la trama di fondo sia sempre e comunque la stessa: un film visto e rivisto decine, se non centinaia, di volte.

Nel caso specifico di Caleidoscopio trattasi di un audacissimo colpo da sette miliardi di dollari, da farsi nel bel mezzo di un infernale tormenta, al centro di una storia lunga all’incirca un quarto di secolo. La storia si ispira ad una pazzesco furto di titoli di stato, realmente avvenuto a New York nel 2012, durante l’uragano Sandy.

Qual’è dunque la principale variante di Caleidoscopio, che è un heist in piena regola? Esteticamente impeccabile, grazie al variegato e consolidato team registico, con un cast fantastico – a partire dal protagonista Giancarlo Esposito (Breaking Bad) -, la serie scommette sull’unicità della sua composizione personalizzabile. Questo sarebbe il suo punto di forza, e persino – così come è stato annunciato – la straordinarietà del suo essere. Una straordinarietà che è purtroppo destinata a girare a vuoto. 

Nel mondo seriale si deve distinguere il tipo di narrazione orizzontale (in cui la storia si va esplicando dall’inizio alla fine) da quello verticale (in cui ciascun episodio è a sé stante, tipo le più gettonate serie anni ’80, da Colombo all’A-Team). Caleidoscopio non è il primo show che tenta di miscelare i due tipi di racconto, ma è sicuramente il primo che lo fa in questo modo. 

E, come è stato detto, può permettersi di farlo perché la sua storia di fondo, e le diverse parti di cui si compone, sono ultratopiche: appartengono cioè a quel copione letto e riletto innumerevoli volte.

Una presunta e colorata eccezionalità

Ogni colore nascondendo uno di questi capitoli strutturali (la preparazione, il colpo e le sue ragioni, le difficoltà, il dopo ecc.), risulta quasi banalmente ovvio riuscire a mettere i pezzi al posto giusto, a prescindere dal loro ordine. E così come i frammenti di vetro colorato di un caleidoscopio sembrano inizialmente disegnare ogni volta qualcosa di diverso, ma basta in realtà poco per comprenderne la logica e stancarsi del gioco, anche per questa serie bastano pochi episodi per smontarne la presunta eccezionalità.

Ma ciò non toglie alcunché alla sua totale godibilità (termine su cui devo confessare di avere molti dubbi, anche se chiarisce bene il punto): Caleidoscopio è una miniserie assolutamente piacevole, brillante e ben fatta. Ma purtroppo nulla più. Alla fine non è un puzzle così enigmatico, né un’esperienza così personale. E questo senza nemmeno tenere conto delle piccole sbavature e degli involontari spoiler che, a seconda delle scelte, ne inquinano l’arbitraria visione. Con il rischio di trasformare questa visione in qualcosa di non lineare, di disomogeneo. 

Non è del tutto vero si possa sperimentare qualsiasi sequenza episodica. Ad esempio, partire dall’episodio Bianco sarebbe partire dal finale: cosa ampiamente sconsigliata – o quantomeno destabilizzante. Dopo il Nero, che è solo una breve intro per spiegare allo spettatore la peculiarità stilistica dello show e, di conseguenza, la sua libertà di fruizione, è lo stesso account Netflix a suggerire alcune possibili sequenze discrezionali. L’ordine di default pare sia: Giallo, Verde, Blu, Arancione, Viola, Rosso, Rosa, Bianco. La sequenza di chiusura standard sembra essere Rosso, Rosa, Bianco. 

La sequenza temporale “cronologicamente corretta” sarebbe: Viola (24 anni prima del colpo), Verde (7 anni prima), Giallo (6 settimane prima), Arancione (3 settimane prima), Blu (5 giorni prima), Bianco (il colpo), Rosso (la mattina dopo) e Rosa (sei mesi dopo).

Il pericolo nascosto in Caleidoscopio (e nel futuro seriale)

Insomma, le modalità di fruizione sarebbero meno di quelle con cui la serie è stata venduta: 5.040 varianti con Bianco come finale, addirittura 40.320 se anche Bianco entra in gioco. In ogni caso, ogni capitolo riserva il suo colpo di scena, e ogni scelta comporta le sue conseguenze: se si lascia il colpo (Bianco) per ultimo, significa che si è già saputo come è andato a finire (con il Rosso e il Rosa). 

Ma, come ormai dovrebbe essere chiaro, nemmeno questo è in fondo così importante…

L’originalità stilistica della serie ha come prezzo l’estrema semplicità – a tratti banalità – della stessa storia. Che alcune informazioni arrivino prima o dopo, non cambia in maniera radicale il racconto di Caleidoscopio. E senza intaccare il senso profondo della storia, il tutto si riduce alla fine ad una bizzarra trovata estetica. 

Così come il colore che dà il titolo ad ogni episodio è presente nello stesso solo esteticamente, senza celare significati profondi, né significanti. Come, per l’appunto, le geometriche figure di un caleidoscopio.

La pericolosa sensazione, davanti al clamore che avrebbe voluto suscitare Netflix con Caleidoscopio, è che l’odierna e massiccia offerta di prodotti seriali costringa le piattaforme a puntare più sull’eclatante futilità promozionale che sulla qualità autoriale. Assecondando così quell’implacabile legge di mercato che ha già da lungo tempo contaminato case discografiche e cinematografiche.

Comunque, che dire? A ciascuno la sua visione.

Un’altra rapina seriale: La Casa di Carta

La Casa di Carta si è afflosciata su se stessa

Tags: Caleidoscopiocrimemetatestualitàrapina
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Livio Pacella [altrove Al Lecap o liviopacella]. Attore, autore, regista, filosofo ballerino, poeta maledetto, bohemien, da tempo impegnato nella stesura di "In Progress - a work", continua a vivere, tra lo stupore generale, al di sopra dei suoi mezzi.

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