The Closer è una serie crime statunitense in 7 stagioni (per il canale TNT, 2005-2012) per un totale di 109 episodi.
Protagonista della serie è Brenda Leigh Johnson (Kyra Sedgwick), nuovo Vice Capo della Prima Squadra Omicidi del Dipartimento di Polizia (Priority Homicide Division) di Los Angeles. La Major Crimes Division, come verrà in seguito ribattezzata, si occupa principalmente dei crimini cosiddetti di alto profilo: trattasi dei casi di omicidio (talvolta anche di scomparsa, rapimento o rapina a mano armata) più complessi e delicati – perché attenzionati dall’opinione pubblica.
La Johnson deve inizialmente superare l’ostilità e la diffidenza della sua stessa squadra, quasi esclusivamente maschile e di una certa età, il cui membro più anziano, Provenza (il mitico G. W. Bailey), essendo anche il più accreditato per la mancata nomina, fatica a nascondere sarcasmo e risentimento. Oltre ad essere donna a capo di un gruppo di uomini, Brenda aveva avuto una relazione con il capo della Polizia Will Pope (J.K. Simmons), cosa che complica i rapporti con lui e con gli altri.
The Closer: chi chiude i casi più difficili
Eppure il motivo per cui è stata scelta riguarda esclusivamente il suo curriculum (ex agente CIA a Washington) e la nuova politica che il Dipartimento vuole adottare: deve cercare di ottenere con ogni mezzo le confessioni dei colpevoli, per evitare in seguito alla procura lungaggini o eventuali ostacoli processuali. E il vice capo Johnson è una che letteralmente chiude (“the closer“) i casi, riuscendo sempre ad arrivare all’agognata confessione, piuttosto che accumulare un numero più o meno sufficiente di prove indiziarie o circostanziali a carico del sospettato.
Con ogni mezzo – interpretando, per così dire, le regole a suo piacimento. Perché così come i sospettati possono mentire alla polizia, la polizia può mentire loro. E Brenda è un’eccellente bugiarda e manipolatrice: una volta effettuate le indagini di rito, i suoi interrogatori – che sono il culmine narrativo di ogni episodio – sono vere e proprie opere d’arte.
Ma prima vengono le indagini, che ci portano dentro il variegato e folle mondo di Los Angeles, dagli scontri tra bande rivali in periferia ai più classici uxoricidi della classe benestante, dalle immancabili stravaganze del mondo dello spettacolo a quelle dei pezzi grossi della città, politici, affaristi o truffatori che siano. Tutto è sempre e comunque molto innocuamente patinato, a partire dall’ottima fotografia e dal sapiente utilizzo delle luci.
Major Crimes: la squadra
La squadra della Major Crimes è composta da personaggi di multietnica provenienza, caratteristici e pittoreschi: avendo tutti una certa esperienza, hanno tutti anche una certa età (che va dai 40 all’età della pensione): per citarne alcuni – Flynn (Anthony Denison), ex alcolista, partner del burbero Provenza; Tao (Michael Paul Chan), il classico esperto tuttologo; Sanchez (Raymond Cruz), incline alla violenza e alla tenerezza al contempo; Buzz (Phillip P. Keene), il civile addetto alla tecnologia dentro il dipartimento.
Ognuno di loro ha naturalmente una propria storia e un proprio percorso che, nell’arco di più di un centinaio di episodi, ha ampio modo di svilupparsi, sì da poter creare quel legame di affetto (sarebbe forse più corretto di dire: di affezione) tra spettatore e personaggio. In questa prospettiva è Brenda Leigh la regina della narrazione, e la sua vita privata ne è oggetto tematico tanto quanto i crimini che vengono via via risolti.
Istrionica e scrupolosamente senza scrupoli nelle vesti di vice capo, ha però la tendenza a portarsi a casa il lavoro, lasciandosi coinvolgere personalmente – se non ossessionare – da tutti i casi che segue. A pagarne il prezzo è il suo compagno, l’agente speciale dell’FBI Fritz Howard (Jon Tenney), incaricato di coordinare le relazioni tra i due dipartimenti. La loro storia sentimentale, che evolve fino al matrimonio (che si interseca, ca va sans dire, con la risoluzione dell’ennesimo delitto), è di tanto in tanto tempestata dall’arrivo dei genitori di lei da Atlanta (Georgia – vedere la serie in lingua originale per apprezzare l’accento del sud di Brenda, all’inizio oggetto di derisione).
Essendo il vice capo perennemente impegnato con il lavoro, quando i suoi sono a Los Angeles o li affida al suo team in ufficio oppure costringe il povero agente dell’FBI a fare loro da accompagnatore e badante.
Le indagini di The Closer, tra dramma e commedia
Questo alternarsi di scene, dal privato della Johnson alle indagini di polizia, è all’origine dell’atmosfera ambivalente che pervade The Closer: un’atmosfera che con elegante nonchalance passa dalla commedia al dramma e viceversa, senza mai eccedere in un verso o nell’altro. Questa è decisamente una serie – assai ben fatta – d’intrattenimento. Per cui non solo è fondamentale il tono leggero nell’andamento narrativo, ma anche la potente empatia che la protagonista (e la sua squadra) riesce a suscitare negli spettatori.
Il personaggio di Brenda, fantasticamente interpretato da Kyra Sedgwick (da più di trentanni moglie di Kevin Bacon), è maniacalmente curato in ogni dettaglio: la sua grande forza e intelligenza sono compensate dalle sue fragilità e dalle sue nevrosi (un esempio su tutti la sua mania per i dolciumi). Il tutto rigorosamente vestito con esuberante eleganza e con colori sgargianti: la Johnson è una bella donna che vive la propria matura età senza timori o complessi. Proprio il modello perfetto da proporre alla casalinga americana della classe media.
Perché l’intrattenimento funziona nella misura in cui il pubblico può identificarsi in tutta tranquillità con i protagonisti del racconto. In questo caso una donna sulla cinquantina brillante e fuori dagli schemi, che combatte contro gli stereotipi maschilisti del suo ambiente lavorativo, oltre che contro i malvagi criminali. Una donna piena di forza e con le sue debolezze, che è perfettamente capace di bluffare e mentire per ottenere il risultato che si è prefissata – e se si è prefissata di mettere dentro i cattivi, chi mai potrebbe rinfacciarle le sue bugie? Il fine giustifica i mezzi. E la Johnson in fondo giustifica le menzogne quotidiane che i mortali dicono a fin di bene.
Un intrattenimento formato famiglia
Anche la squadra vuole la sua parte: un variegato gruppo di professionisti agée – di origine africana, sudamericana, asiatica… Perché lo spettatore tipo di questo show ha una certa età, una diversa appartenenza etnica. Ma, soprattutto, è un pubblico formato famiglia. Per cui, guardando lo show, il marito si divertirà a vedere gli uomini che devono sottostare agli ordini di una donna; e la moglie si divertirà a vedere la donna che dà ordini agli uomini. Inoltre il mondo criminale è qui presentato in forma inoffensiva, ovvero senza lo squallore e la violenza proprie della realtà in questione, sì da incarnare il perfetto intrattenimento in famiglia davanti la TV.
The Closer racconta dunque una realtà che non esiste, ispirandosi paradossalmente a quella di una delle città più violente degli USA, Los Angeles. Instillando mellifluamente l’idea che le forze dell’ordine possano mentire e recitare (Brenda stessa finge più volte di essere una segretaria, capitata lì quasi per caso), pur di incastrare i colpevoli. Il più delle volte la fiducia dell’interrogato è conquistata con false promesse o tramite subdoli tranelli psicologici. E tutto questo appare giustificato perché il nobile scopo è mettere dentro i cattivi.
È lecito per la polizia mentire a fin di bene?
In alcuni episodi estremamente significativi, di fronte all’impossibilità di vedere processati i criminali del caso, il vice capo arriverà a mettere in atto discutibilissime strategie per far loro subire una pena, per così dire, di altro tipo: addirittura decretandone, indirettamente, la morte. Ad esempio rilasciando un soggetto nella consapevolezza questi verrà giustiziato dalla stessa malavita. Diventa quindi interessante, nelle ultime stagioni, il tentativo di un avvocato – dipinto giocoforza come spregevole – di far causa alla Johnson e a tutto il Dipartimento per abuso di forza e uso di metodi coercitivi. Sebbene questo avvocato abbia a mio parere tutte le ragioni legali di questo mondo (o per lo meno degli USA) di far processare la Johnson, lo show fa naturalmente vincere lei e quindi l’etica stessa del suo bizzarro e immorale modus operandi.
Dopo le Charlie’s Angels e La signora in giallo, il piccolo schermo ha nel tempo prodotto molte e diverse figure di detective al femminile (soprattutto negli ultimi anni): Bones, Rizzoli & Isle, The Mysteries of Laura… (per restare in America). Tra queste figure un posto d’onore deve sicuramente averlo lei, il vice capo Brenda Leagh Johnson, e la serie The Closer. Per inciso, lo show di James Duff è praticamente ispirato (pur non essendone un adattamento ufficiale) al britannico Prime Suspect, protagonista Helen Mirren. La serie ha ricevuto una valanga di nomination tra i più importanti premi televisivi USA, un Golden Globe nel 2007 vinto dalla stessa Sedgwick assieme ad un People’s Choice Awards nel 2009 e ad un Emmy l’anno successivo. Una delle serie più seguite nella storia della tv via cavo americana: gli ascolti più alti hanno registrato oltre nove milioni di spettatori.
Da The Closer a Major Crimes
Dopo 7 stagioni, e nonostante lo straordinario successo, nel 2010 Kyra Sedgwick decide di chiudere con il ruolo di Brenda Leigh Johnson, probabilmente per saturazione personale. Per non perdere l’ampia platea conquistata negli anni, il canale via cavo TNT produce allora un peculiare spin-off, chiamato Major Crimes. Peculiare perché riprende la storia esattamente da dove era stata lasciata dal finale di The Closer, il cast rimanendo sostanzialmente invariato. Ed è il personaggio del capitano Sharon Raydor (Mary McDonnell), già apparso precedentemente (con presenza regolare in S7), a prendere il posto della Johnson.
Major Crimes andrà avanti per altre 6 stagioni (dal 2012 al 2018), per un totale di 105 episodi. La struttura narrativa rimane esattamente la stessa: cambiando però la figura protagonista, cambiano le tematiche a lei correlate. Sharon è una donna molto diversa da Brenda: diversa la sua situazione personale, diverso il suo modo di gestire la squadra. Non cambia l’atmosfera iniziale di diffidenza e rancore (Provenza pensava nuovamente sarebbe a lui toccata la promozione), e perché la squadra si era oramai fortemente legata alla figura di Brenda Leigh e perché il capitano Raydor, in quanto precedente emissario degli Affari Interni incaricato di indagare sull’operato della Johnson, era da tutti malvisto dentro il Dipartimento.
Dovrà quindi anche lei guadagnarsi la fiducia e la stima dei suoi collaboratori. Poco importa – ovviamente ci riuscirà; quello che invece è più rilevante è il cambio rotta deciso dai piani alti, per evitare eventuali altre future cause di abuso e coercizione. La nuova politica invita quindi a trovare un accordo (a deal) con i colpevoli – per risparmiare comunque sul costo milionario dei processi e per evitare assoluzioni a sorpresa dettate dall’abilità dei difensori o da sentimentalismi della giuria.
Più razionalità, meno istintualità
E la Raydor, profonda conoscitrice della macchina burocratica e dei cavilli legali legati al procedimento di un’indagine, venendo dagli Affari Interni, è la persona giusta al posto giusto.
Rispetto al temerario atteggiamento da cowboy (o cowlady) del suo predecessore, la Raydor impone a tutti il rispetto assoluto dei codici che regolamentano il campo d’azione del Dipartimento e i diritti dei sospettati, modificando sensibilmente il modus operandi della Major Crimes. Non occorre più estorcere confessioni attraverso macchinose menzogne: basta utilizzare i meccanismi che la legge, soprattutto nelle sue cavillose zone d’ombra, già mette a disposizione. Lo show aggiusta il tiro della sua filosofia, ma non poi di molto: i colpevoli confessano perché terrorizzati dalle terribili conseguenze che li aspettano, secondo un’interpretazione molto arbitraria dei crimini che hanno commesso. Lo spauracchio del terrorismo, l’aggravante dell’odio razziale o dell’omofobia, sono soltanto alcune delle forzature che Sharon applica al codice per spaventare i malfattori. Moralmente discutibile ma, come sopra, pur sempre a fin di bene.
L’idea di risparmiare sui costi, risparmiando in tal modo sul denaro dei contribuenti, diventa il nuovo leit motiv sotterraneo dello show, ammiccando così alla situazione post crisi economica vissuta in quel periodo dagli USA. Sharon è estremamente lucida e razionale, laddove Brenda era più istintiva e passionale. Per molti Major Crimes non poteva essere all’altezza del suo predecessore; eppure gli ascolti hanno premiato questa operazione, sì da confermarla per ben 6 stagioni. Per sopperire alla forse esagerata cerebralità della protagonista, si è voluto inserire il personaggio di Rusty Beck, testimone chiave per il caso Stroh (Billy Burke) – l’avvocato maniaco psicopatico, grande antagonista della squadra in entrambe le serie. Rusty è un giovanissimo ragazzo di strada omosessuale, costretto a prostituirsi poiché abbandonato dalla madre tossica.
The Closer e Major Crimes: melodramma, realtà, distorsioni
Sì, insomma, più melodrammatico di così si muore sul divano di casa.
E invece Major Crimes riesce ad essere ancora più melodrammatico: Sharon, che è divorziata da un avvocato alcolista e giocatore incallito (interpretato da Tom Berenger), decide infatti di prendersi cura del ragazzo, arrivando ad adottarlo e a fargli frequentare la scuola cattolica, già frequentata dai suoi figli naturali. Rusty diventa una presenza fissa negli uffici del Dipartimento.
[SPOILER] Nel finale, a sorpresa, Sharon morirà per malattia, lasciando negli ultimissimi episodi la squadra finalmente in mano a Provenza. Dolce e amaro, come in The Closer: la scelta di far morire la protagonista testimonia una scrittura che, per quanto retorica, non cade mai nella più scontata banalità. Anche se – a sentire Duff, il creatore di entrambi gli show – questa sceltà è stata dettata dall’esigenza di non far pensare ad altre eventuali produzioni che l’attrice Mary McDonnell non potesse essere disponibile, perché magari cooptata per una nuova stagione a sorpresa di Major Crimes… [FINE SPOILER]
E l’idea che l’andamento di una narrazione possa dipendere anche da contingenze così pragmatiche, e per così dire reali, dà non poco da pensare… Se è vero, come diceva Oscar Wilde, che la vita si ispira all’arte più di quanto l’arte non si ispiri alla vita, la caratteristica del nostro tempo è l’impossibilità di distinguere tra l’una e l’altra. The Closer e Major Crimes, prodotti di puro intrattenimento e di buona fattura, sono esempi lampanti di una narrazione che distorce la realtà e la piega sottilmente a fini propagandistici. Apparentemente innocue, è vero; come è vero che l’apparenza inganna.
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