Inventing Anna è più di una (imperfetta) miniserie di successo: è il racconto – affascinante, disturbante e rivelatore – di un’epoca in cui il confine tra verità e finzione, truffa e genio, risulta spesso invisibile. Il caso Anna Delvey (alias Anna Sorokin), trasposto su schermo da Shonda Rhimes per Netflix, alla sua uscita (2022) ha incuriosito pubblico e critica. Proprio perché riflette, come uno specchio deformante, la nostra società ossessionata dall’apparenza, dalla ricchezza, dall’idea di successo a ogni costo.
Inventing Anna (che avevamo raccontato qualche anno fa anche in questa puntata del podcast) ci chiede: dove finisce l’ammirazione per chi “ce la fa” con audacia e visione, e dove comincia l’imbarazzo – o il disdegno – per chi infrange – o manipola – tutte le regole? C’è ancora una differenza tra realtà e narrazione? Tra fatti e fuffa? È un interrogativo che tocca il cuore del mito americano, e che la serie fa risuonare con intelligenza, anche laddove – per scelta produttiva e registro – indulge nella superficie scintillante più che nella profondità psicologica. O sociologica.
Ma la vicenda di Anna Delvey è irresistibile: perché è una storia di seduzione collettiva, di vulnerabilità delle élite, di sistemi che crollano di fronte al talento (distorto) di chi li sa manipolare. Ed è anche una storia di solitudine, ossessione, e di una società che trasforma ogni devianza in spettacolo. Raccontare Inventing Anna significa allora esplorare la follia – contagiosa – del nostro tempo.
Inventing Anna: produzione, fonti e struttura
Inventing Anna, trasmessa su Netflix nel 2022, è una miniserie in nove episodi creata da Shonda Rhimes, già nota per titoli come How To Get Away With Murder, Grey’s Anatomy, Scandal e Bridgerton. La sceneggiatura nasce dall’articolo-inchiesta della giornalista Jessica Pressler, “How Anna Delvey Tricked New York’s Party People”, pubblicato da New York Magazine nel 2018, e la stessa Pressler figura tra i produttori. Dirigono vari episodi David Frankel, Ellen Kuras, Nzingha Stewart, Tom Verica e Daisy von Scherler Mayer.
Protagonista assoluta è Julia Garner, due volte Emmy per Ozark, qui straordinaria nel restituire le ambiguità e le fragilità di Anna Sorokin. Accanto a lei un cast corale, che mescola le vittime, i complici e i detrattori della truffatrice, oltre alla giornalista Vivian Kent (alter ego della Pressler), figura centrale nella narrazione.
La serie ha raccolto un immediato successo di pubblico, diventando una delle più viste di sempre su Netflix, e un’accoglienza critica meno univoca. Le performance sono state lodate, ma molti hanno sottolineato l’incoerenza del tono e la tendenza, per la verità tipica della potentissima Shonda Rhimes, a privilegiare il ritmo e la superficie rispetto alla profondità dello scavo.
Resta però un documento prezioso, capace di mettere in scena – e a nudo – le contraddizioni del nostro strano tempo. Al di là appunto delle sue imperfezioni.
Anna Sorokin: dalla provincia russa ai rooftop di Manhattan
Chi era Anna Delvey, prima di diventare il caso mediatico dell’anno? Anna Sorokin nasce nel 1991 nella periferia operaia di Mosca, figlia di un camionista e di una madre proprietaria di un piccolo negozio. Trasferitasi in Germania da adolescente, Anna fatica a integrarsi, ma coltiva una passione ossessiva per la moda, il lusso, i mondi raccontati da Voguee dai social.
Dopo brevi esperienze a Londra e Parigi, approda a New York come stagista della rivista Purple e qui si reinventa: diventa “Anna Delvey”, presunta ereditiera tedesca, e si insinua con una naturalezza inquietante nei circoli esclusivi dell’alta società. Anna frequenta vernissage, feste esclusive, viaggia, ostenta un capitale inesistente, ma convince tutti di essere davvero ricca grazie a una combinazione di spregiudicatezza, talento manipolatorio e perfetta conoscenza dei codici sociali. Costruisce il sogno della “Anna Delvey Foundation”, centro per l’arte e il business destinato – secondo le sue parole – a cambiare la scena culturale di Manhattan.
In realtà, le sue giornate sono una continua lotta per non far crollare la menzogna: alberghi di lusso senza pagare, amici e fidanzati usati come bancomat, banche raggirate con documenti falsi, promesse di milioni che non arriveranno mai. La storia vera, ricostruita nella serie e negli articoli, è una parabola quasi ipnotica di ascesa e caduta. Che racconta moltissime e utilissime cose tanto della protagonista quanto della società che l’ha lasciata prosperare.
Il grande bluff: trama e struttura narrativa di Inventing Anna
Inventing Anna si sviluppa su due piani intrecciati: da una parte la ricostruzione della scalata di Anna Delvey nel gotha newyorkese, dall’altra l’indagine ossessiva della giornalista Vivian Kent, che ne vuole svelare la verità. La serie segue Anna dal suo arrivo a New York, dove inizia a spacciarsi per ereditiera e si circonda di amici influenti, artisti, investitori e socialite.
Con uno stile disinvolto e una sicurezza incrollabile, Anna riesce a vivere gratis nei migliori hotel della città, accumulando debiti che non intende pagare. Tra colpi di scena, fughe rocambolesche, tentativi di frodare banche e amici, Anna cerca di ottenere un prestito milionario per avviare la sua fondazione creativa. Che la consacrerebbe, e che soprattutto darebbe finalmente solidità alla sua narrazione. Ma viene progressivamente smascherata.
L’arresto avviene a Los Angeles, con la complicità della sua ex amica Rachel Williams, e il processo si trasforma in spettacolo mediatico, tra colpi di scena, abiti da passerella e un’auto-narrazione che sembra voler fare di Anna la vera regina del palcoscenico. Intorno a lei ruotano figure altrettanto ambigue: chi l’ha aiutata, chi l’ha odiata, chi cerca di approfittare del suo caso per notorietà. Il racconto intreccia flashback, testimonianze e la voce della stampa, costruendo un effetto “labirinto” in cui la verità resta sempre sfuggente.
Finzione, verità e ossessioni contemporanee
Il fascino perverso di Inventing Anna sta tutto qui: nel rendere impossibile, fino alla fine, tracciare un confine netto tra vittima e carnefice, tra genio e criminale. Anna Delvey è una truffatrice, ma anche una visionaria che ha saputo capire e sfruttare le debolezze di una società votata al culto della ricchezza, della visibilità, dell’esclusività. È una truffatrice che truffa un sistema truffaldino. Possiamo realmente detestarla?
La serie interroga – pur senza mai approfondire quanto potrebbe – i temi della verità, della costruzione del sé nell’epoca dei social, della vulnerabilità di quelle arrogantissime élite e istituzioni che si credono invincibili. E che poi si scoprono estremamente fragili. Ma la domanda centrale è più sottile: se Anna fosse riuscita a portare a termine il suo progetto – una fondazione vera, magari di successo – oggi non la racconteremmo forse come una pioniera? Come una geniale self-made woman? Anziché come una delle più grandi truffatrici del nuovo millennio?
Non solo. Inventing Anna ci costringe a chiederci quanto il “sogno americano” sia ancora un modello virtuoso, capace di generare spinta positiva. E quanto invece sia una narrazione avvelenata, che finisce per produrre, premiare e persino celebrare chi sa manipolarlo meglio.
È un po’ la stessa linea di confine che separa (separa?) le storie magiche di successo stellare, quelle alla Steve Jobs, per capirci, dalle loro “evoluzioni” più recenti. La delirante ascesa e caduta di WeWork, raccontata in WeCrashed. O la vicenda di Elizabeth Holmes e della sua mirabolante (e di fatto truffaldina) società medicale Theranos, come raccontato in The Inventor.
Inventing Anna: un documento sul nostro tempo
Guardare Inventing Anna è insieme irresistibile e faticoso: la serie si lascia divorare per curiosità, per il bisogno di scoprire come finirà la “partita”, ma risulta spesso estenuante per lunghezza e ripetizioni. Nove episodi, molti sopra l’ora, con dilatazioni narrative che talvolta appesantiscono il ritmo.
Shonda Rhimes mette al servizio della storia il suo consueto talento per il racconto brillante e la messa in scena patinata, ma si ferma troppo spesso (e anche questo come di consueto) alla superficie dei personaggi e delle dinamiche. Julia Garner, con la sua performance intensa, eleva il materiale e rende Anna Delvey una figura memorabile. Insomma, lo avete già capito, si rimane con la sensazione di un’occasione solo in parte colta.
Eppure, nonostante questi limiti, Inventing Anna resta un documento utile per decifrare la malattia del nostro tempo. Una serie che fotografa la febbre collettiva del successo, la vulnerabilità delle “istituzioni”, la facilità con cui la realtà può essere manipolata e venduta come sogno.
Anna Delvey e chiunque le ruoti attorno sono personaggi di un grande bluff. Nel raccontarlo e nel metterlo, per così dire a nudo, la serie ci aiuta a capire meglio la fragilità narcisistica delle nostre illusioni. E il prezzo che siamo disposti a pagare perché diventino reali.
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