Vikings è una grandiosa e intensa serie televisiva canadese-irlandese di genere storico romanzesco, ideata e scritta da Michael Hirst (The Tudors), sviluppata in 6 stagioni per un totale di 89 episodi, dal 2013 al 2021 (in onda inizialmente sul canadese History Channel, in Italia disponibile su Netflix, Sky e Tim Vision).
Non avendo alcuna pretesa documentaristica, la serie non è basata su precise ricostruzioni di carattere storico ma ambisce a raccontare lo spirito di un popolo, focalizzandone la storia attorno alla figura di Ragnar Lothbrok e dei suoi figli – una finzione narrativa che permette di concentrare guerre, scoperte, cultura e religione dei vichinghi in un’unica gloriosa vicenda.
Vikings: prima che una storia, un affresco della cultura norrena
Il personaggio di Ragnar (Travis Fimmel) è ispirato ad una figura realmente esistita, così come la moglie Lagertha (Katheryn Winnick), che diventerà una famosissima guerriera shieldmaiden, l’imponente fratello Rollo, a sua volta guerriero ambizioso e geloso di Ragnar, il figlio Björn e tanti altri protagonisti di questa saga, ambientata nel IX secolo tra la Scandinavia, l’Inghilterra e la Francia del tempo.
La cultura vichinga, il modo che questi uomini avevano di vivere e di significare la vita è per noi di difficile comprensione: è un mondo nel quale addentrarsi episodio dopo episodio, riuscendo poco a poco ad orientarsi nel loro labirintico e contraddittorio groviglio di pensieri e passioni. E in questo Vikings è un viaggio indimenticabile, aldilà della maggior o minor riuscita di alcune stagioni.
Un viaggio, innanzitutto, attraverso l’esaltazione della violenza: niente a che fare, però, con la pruriginosa gratuità di sesso e sangue, che pur qui abbondano, tipica di altri show. La violenza norrena è, senza scomodare Nietzsche, vitalistica purezza degli istinti e trionfo dell’eccesso delle passioni, il tutto tribalmente codificato e ritualizzato.
Un esempio su tutti: il razziare – attività a cui il popolo guerriero (maschi e femmine) si dedica durante la bella stagione – è una prassi assolutamente naturale nell’economia allora vigente, e tutto lo spargimento di sangue e morte che comporta è semplicemente il prezzo da pagare che il più forte impone al più debole. Quando nella serie la filosofia vichinga si incontrerà con il cristianesimo per così dire civilizzato, ciò darà luogo ad affascinanti e drammatici scontri morali ed esistenziali (su tutti la figura del vescovo Heahmund interpretato da Jonathan Rhys Meyers).
L’incontro / scontro con la civiltà cristiana
Meglio fare un passo indietro. Riassumere la trama di Vikings, anche solo per sommi capi, sarebbe impresa qui inutile e assai lunga. La prima parte della storia, dicevamo, ruota attorno alla figura di Ragnar, un contadino che vive a Kattegat con la famiglia. Spinto dalla sua estrema curiosità, decide di disobbedire al conte locale Haraldson (Gabriel Byrne) e di navigare assieme al fratello Rollo (Clive Standen), al fidato costruttore di navi Floki (Gustaf Skarsgård) e ad un pugno di guerrieri, seguendo la nuova e sconosciuta rotta dell’Ovest.
Approderanno in Britannia, dove saccheggeranno con facilità un monastero poco distante dalla costa, impadronendosi di tutti gli oggetti sacri in oro e argento e uccidendo tutti i monaci. Ad eccezione di uno: Athelstan (George Blagden), con cui Ragnar svilupperà un’amicizia profonda e fraterna. I vichinghi si stupiscono di aver trovato uomini tanto deboli a difesa di tali tesori e deridono il loro impotente dio appeso ad una croce…
L’iniziale sconcerto del monaco di fronte ai costumi pagani, e la sua successiva adesione ai valori norreni, bilanciano abilmente la prospettiva vichinga dalla quale noi spettatori vediamo le origini della nostra stessa civiltà: l’intera narrazione si sviluppa su questo delicato equilibrio di valori, dove nessuna delle due civiltà rivali è migliore o più giusta dell’altra.
Ma il focus, come dicevamo, è su quella vichinga, la cui storia è destinata a cambiare dopo la scoperta della Britannia, un nuovo mondo da razziare e conquistare. Ragnar è destinato a divenire un sovrano leggendario e noi a seguire le sue avventure, dettate dalla sua insaziabile fame di ignoto – una delle prime storie che racconta al piccolo Björn riguarda Odino, che si toglie un occhio per poter vedere più lontano…
La fine del tempo degli eroi
“Il potere è pericoloso. Attira i peggiori e corrompe i migliori. Il potere è adatto a chi è pronto ad abbassarsi per raccoglierlo” dirà il sovrano Ragnar, da sempre poco interessato alle corone e molto più all’idea di scoprire e conquistare nuove terre, nuovi mondi. Dalla Britannia. in cui cercherà di insediare delle colonie, punterà alla “Franchia”, dopo aver sentito parlare della più grande e magnifica tra le città europee di allora: Parigi.
Lo scontro / incontro con la cultura cristiana europea del tempo metterà in atto tutta una serie di cambiamenti nelle tradizioni norrene e con la morte di Ragnar il tempo degli eroi deve finire: così ha inizio la seconda parte di Vikings, legata alle vicende dei figli di Ragnar, costretti a misurarsi con la pesante eredità lasciata loro dal padre, e con il vuoto che la sua morte ha creato.
Ecco allora la complessità dell’anima vichinga, rappresentata dal padre, diramarsi in direzioni diverse: il primogenito Björn la Corazza (Alexander Ludwig), l’orgoglio guerriero, instancabile avventuriero e incrollabile dfensore della tradizione; Ubbe (Jordan Patrick Smith), l’intraprendenza contadina, lo scopritore di nuove terre da coltivare; Hvitserk (Marco Ilsø), lo spirito tormentato da dubbi etici e religiosi, alla ricerca perenne del senso delle sue scelte; e infine Ivar Senz’Ossa, conquistatore maledetto e glorioso, che seminerà caos e distruzione dall’Ucraina all’Inghilterra.
I fratelli saranno chiamati tutti a combattersi tra loro, in un turbinio e giravolta di alleanze, ma è senz’altro Ivar (Alex Høgh) l’indiscusso protagonista della seconda parte della serie: nato con una terribile difformità alle gambe, per cui il padre avrebbe voluto ucciderlo da piccolo, sopravvive per l’amorosa volontà della madre Aslaug (Alyssa Sutherland), seconda moglie di Ragnar. La storia di questo giovane, nato con l’impossibilità di muoversi con le proprie gambe in un mondo guerriero, in cui il valore si misura dalla forza, e costretto ad un’impossibile eredità, è straordinaria. “Sìi spietato, figlio mio…” – queste le ultime parole che il padre gli rivolgerà. E Ivar sarà spietato come nessun altro prima di lui.
Vikings, canto sublime di un mondo antico e violento
Il mondo vichingo, dicevamo, è un mondo feroce e brutale, fatto di risse, saccheggi, pericoli, invasioni, massacri, veleni, veggenti, inganni, complotti, deliri, vendette, tradimenti, orge, torture, ira, crudeltà, conquiste, prestigio di fronte ai propri simili – e ancor più di fronte agli dèi, un mondo in cui sopra ogni cosa si venera la morte in battaglia: il Valhalla – pressappoco il corrispettivo del paradiso cristiano – è un immenso palazzo forgiato da lance e scudi, all’interno del quale si gozzoviglia eternamente ubriacandosi con gli dèi e raccontandosi di continuo le gesta più mirabili compiute in guerra…
Un mondo in cui la più terribile tra le condanne a morte è l’aquila di sangue, supplizio che prevede lo squartamento della schiena, sì che i polmoni, una volta estratti, possano ricadere sulla spalle del condannato come ali… Soltanto colui che non urla durante il supplizio può accedere al Valhalla.
Se tutto questa sembra ora di una distanza incommensurabile, dopo la profonda e inebriante visione di Vikings non si potrà non aver colmato tale distanza, e quindi essere finalmente pronti a comprendere la bellezza e la purezza di questo antico mondo di violenza, sotto il segno del martello di Thor. E non sembrerà più strano, ad un certo punto, che i corvi neri siano realmente presagi di morte, o che Odino stesso, senza un occhio, scenda sulla terra per avvertire i figli della morte di Ragnar…
Perché ci si ritroverà nell’incanto dell’anima vichinga, sublimata in questa splendida e imperdibile saga, Vikings che, al di là di alti e bassi, mantiene sempre una stupefacente e altera profondità – l’unica cosa che in fondo conta.
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