Se vi piacciono le vicende di spie ma avete poca pazienza per il glam gadgetistico e d’azione di 007, Slow Horses è quasi l’altra faccia della medaglia: una faccia sporca, rugginosa, graffiata, abituata a restare nascosta. Con al centro un Gary Oldman semplicemente monumentale, in una performance che da sola vale la visione.
Sarebbe inutile cercarvi profondità di chissà che tipo, come spesso ci piace fare con le serie tv qui su Mondoserie, alla ricerca di segni rivelatori delle tendenze che plasmano il nostro tempo. Non è una critica: anzi, con la seconda stagione appena conclusa su Apple TV+ si è confermata una delle nostre serie preferite del 2022. Ma è una serie da guardare perché irresistibile, senza bisogno di tante altre ragioni. Puro intrattenimento, di gran classe. Godibilissima. Anzi, persino cresciuta nella sua seconda parte (e non era facile).
Intanto, che cos’è Slow Horses. È un thriller spionistico in due stagioni (in partenza). Ciascuna ispirata a un libro di Mick Herron, e ciascuna con un proprio arco narrativo largamente autonomo. Le sei puntate andate in onda su Apple TV+ tra aprile e inizio maggio 2022 erano tratte dal romanzo dallo stesso titolo. Le sei distribuite a dicembre 2022 si sono invece poggiate su un secondo libro dello stesso autore: Dead Lions.
Una scelta curiosa, quella di lanciare due stagioni (brevi) nello stesso anno. Che dovevano iniziare e concludere lo show. Ma poi, sull’onda di un successo forse persino sorprendente e di un vasto plauso critico, la serie ha già ottenuto un ulteriore imprevisto rinnovo. Le stagioni 3 e 4 di Slow Horses tradurranno in immagini ulteriori romanzi della collana: Real Tigers e Spook Street. Le cose sono così avanti che la stagione 2 si chiude con il trailer del prossimo capitolo.
Come inizia e di cosa parla Slow Horses
Creata e prodotta da Will Smith (no, non lo schiaffeggiatore degli Oscar), che ne è anche lo sceneggiatore primario, Slow Horses è stata diretta per tutti e 6 gli episodi della prima stagione da James Hawes. Mentre per la seconda fa da regista Jeremy Lovering, sempre con Smith come sceneggiatore capo e showrunner. Smith è un autore esperto (vincitore di un paio di Emmy per il lavoro su Veep con Armando Iannucci), che qua prende una vacanza dal genere comico che ha più frequentato. Anche se le crepuscolari atmosfere della serie non di rado offrono inattesi momenti grotteschi, persino divertenti.
La serie inizia mostrandoci il fallimento, durante una missione di addestramento, dell’agente britannico dell’MI5 River Cartwright (Jack Lowden). L’imbarazzo è cospicuo, e costa al promettente agente una sorta di condanna al purgatorio: la Casa del Pantano (Slough House). Cioè la fatiscente sede secondaria dei Servizi, sorta di parcheggio amministrativo in cui agenti caduti in disgrazia si trovano a passare tediose giornate, tiranneggiati dal capo della sezione: Jackson Lamb (Gary Oldman). Trasandato, alcolizzato, disincantato, apparentemente interessato solo a spingere – per tedio e frustrazione – alle dimissioni i suoi agenti in disgrazia. E cioè gli Slow Horses del titolo, ovvero i ronzini: cavalli di scarso valore, e che pure si piegano a compiti umilianti. Nella remota speranza di poter tornare un giorno a Regent’s Park, scintillante quartier generale dell’MI5.
Il rapimento di un giovane comico universitario di origine pachistana da parte di un gruppuscolo di estremisti ultranazionalisti di destra, che minacciano di decapitarlo come gesto dimostrativo, mette in gioco anche la Casa del Pantano. Facendo emergere segreti, bugie, storie pregresse. E offrendo al gruppo, forse, una possibilità di redenzione.
L’ombra della Russia: una seconda stagione che cresce
La seconda stagione di Slow Horses alza ulteriormente la posta. Nel primo capitolo la vicenda principale esplorava le pericolose connessioni politiche e mediatiche di certe frange estremistiche dell’ultranazionalismo bianco e revanscista: un quadro certamente molto attuale (gli esempi in questo senso ormai si sprecano, specie negli Stati Uniti ma anche in Gran Bretagna: ne abbiamo raccontato un filone parlando del documentario Q: Into the Storm), ma al contempo, va detto, non facilissimo da prendere davvero sul serio. Anche per l’ottusità del manipolo di neonazisti.
Nella sua stagione 2, Slow Horses rispolvera il nemico per eccellenza dell’immaginario spionistico occidentale: i russi. Anche in questo caso, non manca l’attualità. Il nuovo caso inizia quando un ex agente segreto riconosce, a Londra, un uomo che lo ha torturato durante la Guerra Fredda. Prova a seguirlo, e viene trovato morto su un bus, vittima di un apparente attacco di cuore. Jackson Lamb vuole vederci chiaro: sotto un sedile del bus trova, nascosto, il telefono del morto. Tra le nostre, una sola parola: “cicala”. Che non è l’innocuo insetto ma, nel gergo delle spie, un agente dormiente: capace di restare inattivo per anni, per poi essere riattivato e colpire. Come le cicale, che – a seconda della specie – possono passare anche diversi anni sotto terra come larve, prima di emergere.
Ci sono agenti dormienti? Sono stati riattivati? Qual è il loro piano? Sullo sfondo di complicati negoziati tra servizi inglesi e dissidenti russi, delle mai sopite smanie di rivalsa dell’ex superpotenza e di movimenti anti-capitalistici parte una caccia che cambierà più volte di segno nel corso della stagione… Senza far mancare, va detto, una vena ironica più esplicita che nel primo capitolo.
Un’ottima resa, un gigantesco Gary Oldman
Fedele alla storia che racconta, Slow Horses offre una messa in scena fatta di sfumature e zone d’ombra. La Casa del Pantano è fatiscente fuori come dentro. Persino entrarvi non è facile: una porta semi-bloccata ne evidenzia l’isolamento. L’interno non è certo meglio: scale sporche, corridoi fiocamente illuminati, uffici miseri.
Il più misero di tutti è il regno, si fa per dire, di Lamb. Perennemente immerso in una nebbia di sigarette, fuligginoso, ingombro di carte, spazzatura, bottiglie più o meno vuote. Il vecchio agente disincantato, come scopriremo, è stato in gioventù un membro dell’Intelligence leggendario. Gary Oldman, attore per tanto temponon sufficientemente riconosciuto nonostante le sue qualità e il suo carisma e consacrato solo di recente per la sua incredibile performance come Churchill in Darkest Hour, gli dà forma perfetta. Corpulento, stropicciato, infastidito da tutto, dalla parlata strascicata e perennemente alcolica.
Quando la sua squadra viene coinvolta in una macchinazione ordita da Regent’s Park, ed è minacciata di finire come capro espiatorio di una operazione “false flag” finita male, Lamb mostrerà di non essere né decotto né privo di cuore. “Potranno anche essere degli sfigati – ma sono i miei sfigati”: dice, ergendosi a difesa dei suoi, in un bellissimo confronto notturno con Diana Taverner (Kristin Scott Thomas), vicedirettore dell’MI5 e capo delle operazioni nota con il nome in codice di “Second Desk”. L’attrice inglese è il perfetto contraltare al connazionale Oldman: gelida, sofisticata, controllatissima. Opposto speculare in termini tanto estetici quanto morali, in una riuscita dialettica che non può che portarci a tifare per il vecchio e gonfio perdente.
Chiude il bel cast Jonathan Pryce, che interpreta il nonno dell’agente Cartwright, a sua volta sulfureo e misterioso agente dell’MI5 in pensione.
Le spie di Slow Horses, anti-Bond
Ma è appunto il gioco delle ombre e degli opposti a rappresentare l’aspetto più interessante di Slow Horses, oltre ovviamente alla già citata performance magistrale di Oldman. Come fa capire subito l’allusiva e sardonica canzone della sigla di testa, Strange Game, che Mick Jagger canta e che ha scritto per lo show assieme al compositore della colonna sonora Daniel Pemberton.
Jackson Lamb sarà anche indolente e tirannico, ma ha cuore. Avrà anche i calzini bucati e camicie non lindissime, ma è pulito dentro. E quando rifiuta di far finire i propri agenti nel tritacarne delle ciniche operazioni dell’MI5, senza per questo rinunciare ad essere un bastardo, siamo gioiosamente con lui. La seconda stagione spinge ancora più in là il paradosso. Lamb è, se possibile, ancora più laido. L’impermeabile è ormai una mappa di macchie. Guardarlo ingurgitare il cibo (noodles, soprattutto) mette a dura prova lo stomaco. Sembra quasi di sentirlo puzzare, e chi lo incontra non manca di farlo notare. Eppure la statura morale del personaggio cresce. Non ha bisogno di divise, come non ha bisogno di grandi discorsi, per fare la cosa giusta.
Queste spie sono lontane anni luce dal modello di James Bond e dalla maggior parte delle incarnazioni glam, solari, positiviste della figura dell’agente segreto. Sono personaggi quasi sempre mediocri, e però ancora capaci di un occasionale guizzo di fantasia o di coraggio. Vivono nell’ombra, e ai margini di un gioco più grande di loro, e da loro assai distante. Però sanno trovare lo scatto d’orgoglio.
Che fa loro tenere testa ai temibili dogs, i “cani” che sono l’unità tattica d’élite del controspionaggio. E che li porta, loro ronzini, slow horses, ad arrivare per primi sul traguardo.
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