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Harry Palmer – Il caso Ipcress: una spy story molto british e sixties

Una miniserie stilisticamente impeccabile: perfetta - e attualissima - storia di 60 anni fa

di Livio Pacella
04/11/2022
in Articoli, Artwork
Cover di Harry Palmer - Il caso Ipcress per Mondoserie
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Harry Palmer – Il caso Ipcress (The Ipcress File) è una miniserie britannica spy-thriller in 6 episodi (Sky, 2022). Fonte diretta d’ispirazione, il romanzo The IPCRESS File (1962) di Len Deighton, da cui il film IPCRESS (1965) – protagonista Michael Caine. Il romanzo – bestseller – fu il primo di una serie di cinque (l’ultimo è del ’76), ognuno dei quali trasposto sul grande schermo, protagonista sempre il grande Caine, allora all’apice della fama e della forma. 

Era il periodo in cui imperava il James Bond di Ian Fleming e Sean Connery. E rispetto a Bond, Harry Palmer (nome proposto dallo stesso Caine: nel romanzo originale non vi era nessun nome) è certamente meno spettacolare e più realistico. Ma anche e soprattutto più squisitamente british, nelle pose come nell’eloquio. In generale, l’atmosfera glamour inglese anni ’60 pervade piacevolmente buona parte della serie. Buona parte poiché, come ogni spy story che si rispetti, l’avventura di Palmer non può non avere l’immancabile tappa esotica (Beirut).

Ma chi è Harry Palmer (Joe Cole, già in Peaky Blinders e Gangs of London)? Innanzitutto un delinquente, ospite della prigione militare di Colchester. Veterano della Guerra di Corea, ex caporalmaggiore di stanza nella Berlino Ovest del Muro e della Guerra Fredda, Palmer soprassedeva una fiorente attività di contrabbando di beni destinati all’esercito (un mercato nero di prodotti che andavano dallo scotch alle aragoste).

Il proletario Harry Palmer

L’improvvisa scomparsa, dovuta apparentemente ad un rapimento, di un brillante scienziato – essenziale per gli sviluppi della bomba atomica – allerta non poco il governo britannico. La risoluzione della delicata questione, con risvolti decisamente internazionali (sembrerebbe all’apparenza opera dei russi), è affidata ad una elitaria sezione del controspionaggio inglese, che non ha relazioni né con l’MI5 né con l’MI6 (di cui farebbe parte, ad esempio, l’agente 007), guidata dal Maggiore Dalby (Tom Hollander). 

Harry Palmer, nei suoi trascorsi da contrabbandiere, era entrato in contatto con un losco criminale. Che è ora l’unica traccia per ritrovare il Professor Dawson (Matthew Steer). Gli viene dunque concessa una temporanea libertà, per supportare l’ufficio bellico per le comunicazioni operative – il WOOC(P), dicitura ufficiale per questo elitario gruppo di spie – nella ricerca dello scienziato scomparso.

Agli occhi di Dalby – altro felice stereotipo british middle age – Palmer si rivela da subito un ottimo elemento. Intelligente, intuitivo, creativo: Harry possiede tutte le doti per essere un’ottima spia. 

Come viene più di una volta sottolineato nel corso della storia, la sua provenienza proletaria, a dispetto degli eccellenti voti con cui si è distinto nel percorso scolastico, pare essere stata da sempre il freno a mano tirato che gli ha impedito di fare carriera. In una società ancora votata ad una meritocrazia del sangue piuttosto che del valore personale.

Una coppia anticonformista in un pericoloso campo di gioco

Ma è proprio la disinvoltura morale e la conoscenza diretta delle zone grigie dell’essere umano a rendere Palmer un elemento ideale per un’indagine che travalica i confini nazionali, e non solo. Comunismo russo e patriottismo americano si scontrano direttamente in questo vasto campo da gioco, dove l’inglese pragmatismo dettato dal buon senso cerca in ogni modo di arbitrare la partita. Prima che questa degeneri in un conflitto nucleare.

Ad affiancare il novello agente Palmer (anche se formalmente sarebbe l’esatto opposto), l’impeccabile e affascinante agente Jean Courtney (Lucy Boynton), altro perfetto stereotipo di questa british spy story. Bellissima, bravissima – e biondissima, Jean vive un contrasto sociale parallelo a quello del proletario Harry. È una giovane e piacente donna, dannatamente abile nel suo lavoro di spia ma pur sempre femmina. In un campo da sempre devotamente votato al più puro maschilismo.

L’anticonformista coppia di protagonisti veste naturalmente – ca va sans dire – la sofisticata moda anni sessanta con una grazia e un carisma senza pari. A completare il quadro delle disparità sociali del tempo, l’ambiguo agente della CIA Paul Maddox (Ashley Thomas), di cui basterà dire che è afroamericano. Quasi tutti gli altri personaggi del mondo del controspionaggio inglese appartengono in questo show alla classe aristocratica, e si comportano effettivamente ed affettatamente come tali. 

Harry Palmer e Jean Courtney, un esponente della working class e una ragazza ancora da maritare, sono dunque gli unici personaggi potenzialmente votati all’azione, in questa Inghilterra classista, imparruccata e paternalista. Azione che, come si accennava, non ha molto a che fare con i prodigi di uno 007 con licenza di uccidere.

Doppiogiochismo tout court 

Harry Palmer, ad esempio, detesta le armi ed è ancora perseguitato dai fantasmi della guerra in Corea. Questo suo aspetto psicologico, assieme al rapporto che ha con la moglie – che da anni convive con il suo testimone di nozze e lo supplica per avere la separazione (non facile da ottenere nell’Inghilterra del periodo) – delinea il lato umano del protagonista. Lato del tutto assente in un James Bond.

Questa spassosa storia di spie (fermandosi ad una lettura superficiale), si diceva, è ambientata in un mondo contrapposto tra l’idealismo comunista dell’Unione Sovietica e il paradiso capitalista americano, ambiguo alleato della vecchia e maestosa Gran Bretagna. Ma vi è spazio anche per una grigia e notturna Berlino, e per una solare e lucente Beirut. Entrambi spazi topici votati ad una più o meno vitale anarchia – poiché terre da tutti contese e, in fondo, di nessuno. 

In questi mondi l’essenziale sembra sempre avvenire sottobanco, per tramite di oscure contrattazioni, complotti e ricatti. Ecco allora l’importanza della messinscena. Dalla malavita turcoberlinese alla corrotta polizia libanese, dall’amore di una scienziata russa che dovrebbe essere morta da dieci anni all’arrivo di Kennedy a Londra per suggellare l’indiscutibile alleanza occidentale… 

Il doppiogiochismo è da sempre l’essenza di ogni spy story. Ne Il caso Ipcress questa essenza è dichiarata fin dall’inizio in modo raffinato e plateale al contempo. L’abilità di mentire sembra appartenere a tutti i personaggi, meno che ai due protagonisti (non a caso Harry finisce subito in prigione, mentre Jean dovrà pagarne il prezzo nella vita privata). E si gioca doppiamente financo nella trama, il cui centro non è l’ordigno nucleare – il cui test viene beffardamente eseguito in una breve quanto epica scena – ma il condizionamento mentale, ottenuto – in pieno spirito vintage – attraverso somministrazione di cocktail farmacologici, privazione del sonno, costrizione a violente immagini e suoni…

Harry Palmer: vecchio film, nuova guerra (fredda)

In conclusione, se tutti i personaggi non sono che dei burattini per costituzione, in questa storia vi sono dei burattini al quadrato, le cui azioni sono regolate da volontà altrui. E così anche questa spy story fa magnificamente il suo doppio gioco, amplificato dalla compostezza recitativa – anch’essa di matrice british – con cui gli interpreti abilmente si destreggiano. Ovvero: è sempre molto chiaro quello che fanno, molto meno il perché lo stiano facendo. Ed è davvero difficile qui distinguere i buoni dai cattivi.

Merito della scrittura di questa miniserie, ad opera di John Hodge (Trainspotting), e della regia di James Watkins (McMafia). Oltre alla costruzione dei personaggi, e ovviamente alla loro interpretazione, una particolare cura presiede alle scenografie, ai costumi, alla fotografia, alla colonna sonora. Creando in tal modo una moltitudine di dettagli estetici come contenuto di un preciso stile formale delle riprese, volutamente citazionista dei vecchi film sixties. Talvolta sembra davvero di essere tornati a quel magico periodo – magico per lo meno per i film di genere spionistico… Basta dare un’occhiata alla sigla iniziale.

Questa volontà di rieditare un tale genere e stile del passato immette paradossalmente linfa vitale in Harry Palmer – il caso Ipcress. Una linfa che ne rivitalizza anche i contenuti: guerra fredda, minaccia nucleare, lavaggio del cervello e doppiogiochismo… 

L’unico contenuto che forse fatica ad essere rivitalizzato è quello della pragmatica ragionevolezza britannica. Ma in fondo è proprio l’aspetto che meno di tutti gli altri ci interesserebbe trovare all’interno di una serie televisiva – anche se di britannica fattura…

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Tags: anni 60Gran BretagnaHarry Palmerspionaggio
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