Prison Break è una serie televisiva statunitense creata da Paul Scheuring per la Fox Television (in coproduzione assieme a Adelstein-Parouse e Original Television), inizialmente suddivisa in 4 stagioni (2005-09) a cui seguono un film TV (Prison Break: The Final Break, 2009) e una quinta stagione (2017). Premesso che all’origine del film vi era l’idea di produrre due puntate aggiuntive – e conclusive – alla quarta stagione, contando anche queste, il totale degli episodi è 92. Nel 2018 la Fox Entertainment ha annunciato una sesta stagione di cui, almeno fino ad ora, non si è più saputo niente. In Italia è ora disponibile su Disney+.
E dire che al principio l’idea di Scheuring venne scartata perché non ritenuta adatta ad una produzione di lunga durata! Il progetto ebbe così un’esasperata gestazione, passando di mano in mano. E arrivando ad attirare addirittura l’interesse di Steven Spielberg. Il successo di show come Lost e 24 convinse la Fox del contrario. Ma anche in questo caso il contratto per la prima stagione prevedeva un massimo di 13 puntate.
Fu l’enorme e inaspettato gradimento della serie a modificare in itinere la situazione, portando il numero complessivo di episodi a 22 e dando così vita ad una pacchiana svista (sviste che più volte torneranno nel corso degli anni in Prison Break). Nelle puntate precedenti, corrispondenti anche ai giorni precedenti, si sudava per il caldo, mentre nella n.14 addirittura nevica… Neve giustificata narrativamente a causa dello “stranissimo clima dell’Illinois”.
Tachicardia, blues brothers e fantasmi (tra Chicago e lo Yemen)
Prison Break è uno show di genere escape, of course. Ma la grande potenza dell’intuizione originale viene bruciata, per così dire, in poco tempo. Lo straordinario successo conseguito da questo prodotto di puro intrattenimento ad altissima tensione, dal ritmo volutamente tachicardico, con un talvolta eccessivo ricorso al cliffhanger (ovvero con una miriade di colpi di scena) ha imposto un proseguo all’iniziale avventura evasiva (ovvero a S1).
La storia inizia quindi paradossalmente al suo apice per poi avvitarsi in una spirale discendente su se stessa. Questa spirale sposterà consequenzialmente l’azione in Messico, a Panama, a Los Angeles, Miami, Sana’a (Yemen) e infine New York. Ma al principio è ambientata per lo più nell’immaginario carcere di Fox River, Illinois (oltre che a Chicago e a Washington, per chiudere questo tour seriale delle principali città degli Stati Uniti).
Le riprese di Fox River sono state effettuate all’interno di un penitenziario realmente esistito e dismesso nel 2002, la Joliet Prison dell’Illinois. La stessa che si vede nell’incipit di The Blues Brothers. Pare inoltre che diversi attori abbiano avvertito e paventato la presenza di spettri, che non mancano mai in ogni ex carcere che si rispetti.
Prison Break, storia di due fratelli e di un imponente tatuaggio
Protagonista assoluto di questa serie piena di azione e suspense è Michael Scofield (Wentworth Miller), un geniale ingegnere edile che finge una rapina in banca per farsi rinchiudere nello stesso penitenziario in cui il fratello Lincoln (Dominic Purcell) attende la sua condanna a morte.
Lincoln è accusato di aver ucciso il fratello del Vicepresidente americano. Michael, convinto della sua innocenza, ha progettato un articolatissimo ed elaboratissimo piano di fuga da Fox River. L’ingegnere, avendo anni prima effettuato lavori sulle infrastrutture della prigione con la sua azienda, ha avuto modo di studiarne alla perfezione le planimetrie.
Per non scordare nessun dettaglio del suo pazzesco e complicatissimo progetto di evasione, Scofield se lo è fatto tatuare sulla metà superiore del corpo (petto, braccia, schiena), mascherando 24 elementi specifici per l’attuazione della fuga per mezzo di una grandiosa e affascinante raffigurazione di scontro tra figure angeliche e demoniache, simbolo dell’ambiguità morale che pervade la serie – pur non essendone l’aspetto principale (che rimane l’intrattenimento spettacolare).
Evasione, libertà e malvagia cospirazione
Per realizzare la complicatissima evasione si riunisce in poco tempo un umanamente pittoresco ed etnicamente variegato gruppo di detenuti, tra cui il boss mafioso John Abruzzi (Peter Stormare), l’assassino maniaco psicopatico T-Bag (Robert Knepper), il delinquente comune Fernando Sucre (Amaury Nolasco)… Dall’altra parte delle sbarre, hanno un ruolo fondamentale la dolce dottoressa Tancredi (Sarah Wayne Callies) e il sadico capo delle guardie Bellick (Wade Williams).
Come si diceva, la prima parte è serrata e dirompente come poche: si potrebbe anzi dire che questa è la vera e propria Prison Break.
Poi, una volta usciti di prigione, qualcosa si perde e la serie viene irrimediabilmente compromessa. Svanisce poco a poco la fantastica tensione che era legata – incatenata – alle gabbie e ai corridoi di Fox River. Eppure i nostri eroi, sebbene evasi, non sono ancora liberi.
La malvagia e retorica cospirazione ad opera di multinazionali e esponenti corrotti del governo, chiamata la Compagnia – incarnata dal suo fidato esecutore Paul Kellerman (Paul Adelstein) – vuole la morte di tutti gli otto fuggitivi. A tal fine entra in scena un altro personaggio di notevole caratura: Alex Mahone (William Fichtner), agente dell’FBI che lavora segretamente per la Compagnia, con il compito di rintracciare ed eliminare i nostri eroi, nel frattempo sparpagliatisi per l’America.
Doppio gioco e doppio carcere in Prison Break
Non sorprenderà quindi, che tra peripezie e colpi di scena, alcuni dei fuggitivi, assieme alla guardia Bellick (divenuto cacciatore di taglie dopo il licenziamento) e a Mahone (rinnegato dalla Compagnia), si ritrovino arrestati dalle autorità panamensi ed introdotti nel Penitenziario Federale di Sona.
Un carcere, questo di Sona, che dovrebbe far rimpiangere Fox River: qui infatti regole e secondini non contano pià nulla e i prigionieri si autogovernano in un clima di inaudita ferocia e brutale anarchia. Altro carcere, altri personaggi, altra evasione ai limiti dell’impossibile…
Per poi tornare, nuovamente, on the road. Obiettivo: distruggere la Compagnia, capitanata dal crudele generale Krantz. Tutto ora ruota intorno a Scylla [sic], misterioso dispositivo contenente misteriose informazioni, libro nero della sopracitata associazione cospirativa oppure formula segreta per una fonte energetica infinitamente rinnovabile… Doppiogiochismo e ribaltamenti di campo a tutto spiano, il nemico del mio nemico eccetera elevato al quadrato e azione a non finire…
Fine del riassunto delle prime quattro stagioni.
Una patologica Odissea
L’altruismo patologico che caratterizza il protagonista – Michael Scofield – l’uomo dalle superbe capacità mentali – è probabilmente connesso ad una sua disfunzione neurologica. Qualcosa non va nel suo ipotalamo. E non stupisca che sia proprio la Compagnia ad offrirsi per organizzare la delicatissima operazione chirurgica che dovrebbe rimuovere il tumore dal suo cervello. Niente invece, a quanto sembra, si è potuto fare per aggiustare le teste che hanno concepito The Final Break e la quinta stagione.
Nel primo caso, i due episodi aggiuntivi e conclusivi divenuti film TV, si tratta di un’evasione (i nostri eroi devono ora far fuggire la dottoressa Sara Tancredi). Nel secondo caso, 9 episodi a distanza di otto anni, si tratta ancora una volta – c’era qualche dubbio? – dell’ennesima evasione… Un redivivo Michael Scofield – eh sì, che dire, era malinconicamente morto, 7 anni prima, sempre sacrificandosi per gli altri – si trova imprigionato addirittura in Yemen. Ribaltamento di ruoli: tocca ora al fratellone tirarlo fuori da lì, organizzando una fuga che ha del miracoloso.
L’ultimissima parte è invece, ahimè, nuovamente on the road, tra altre resurrezioni o semplici riapparizioni di vecchi personaggi e nuovi temibili nemici. Il tutto in un cocktail che strizza confusamente gli occhi all’omerica Odissea (del resto avevamo già incontrato Scylla/Scilla). Da Ogygia, nome del carcere e dell’isola da cui Odisseo inizia il viaggio, a Outis, ovvero Nessuno. Da Poseidon, nome in codice e divinità ostile, a Ithaca, città in cui Sara ora vive, da Phecia a Ciclope…
Si tratta di citazioni riprese senza metodo, frugando quasi a caso nel più noto dei poemi epici, a voler significare la travagliatissima avventura del protagonista, anch’egli uomo dall’ingegno multiforme.
Prison Break: il videogioco
Man mano però che ci si allontana dalla prima sensazionale stagione, come si può evincere dal mio improbabile tentativo di sintesi, è solo la trama che, arrancando, tenta percorsi sempre più ingegnosamente multiformi. Nel senso più becero possibile, ovvero quello di diventare inutilmente sgangherata e ripetitiva. Dato che si ritrova a percorrere di continuo le stesse strade: su tutte, quella dell’evasione.
Sarà forse per questo che le sviste di cui sopra si fanno sempre più notare. In un dialogo il protagonista è nato nel 1976, nella sua lapide c’è scritto 1974. Anche la stessa incisione della sua data di morte passa dal 2005 (E24 S4) al 2010 (E1 S5). In S3 ci si dimentica di una parte del suo tatuaggio precedentemente eliminata da una bruciatura, ecc.
Insomma, chaos & disorder. Eppure, nonostante gli errori e le forzature narrative, tra assurde coincidenze ed avvenimenti al limite della credibilità, si va palesando la natura squisitamente videoludica di questo show, più vicino alla sensibilità di un videogioco che di una serie come Oz o anche solo di un reality sulle carceri americane (che ora, ovvero dopo Prison Break, vanno alla grande). Non è dunque un caso l’esistenza di Prison Break: The Conspiracy. Videogioco per consolle basato unicamente su season one.
Stupefacente fuga dall’inferno (fino all’ultimo sbadiglio)
Il viaggio nell’infernale labirinto del carcere di Fox River è in parallelo un viaggio nella malata e meticolosa mente del protagonista. Talvolta dilaniato dal dilemma che inevitabilmente gli si pone: quanto male si può causare a fin di bene? Se la corruzione è arrivata fin nel cuore del governo statunitense, fin dove ci si può spingere per combattere la stessa istituzione civile? Per salvare il fratello, Michael deve scendere a patti con i diabolici abituè di quell’inferno: criminali patologici, maniaci psicotici, bugiardi seriali. Legge della giungla, favori e ricatti, impossibile fidarsi di qualunque parola, necessario dormire con un occhio aperto. Esemplare di questo angosciante clima l’interpretazione sublime di Robert Knepper (alias Theodore ‘T-Bag’ Bagwell), tutta giocata tra pose da rettile e andatura felina.
Uno scenario a dir poco desolante, che si cerca di portare alle estreme conseguenze nel carcere di Sona. Eppure in un certo qual modo molto più verace della società cosiddetta civile, in cui si è tutti sottoposti al segreto sporco governo della Compagnia.
Thriller nell’essenza, l’intreccio di Prison Break non cerca di dare troppo rilievo a nessun tipo di spessore psicologico. Ma di essere solo un’incessante e sbalorditiva sequela di colpi di scena a ritmo da infarto (che non è certo cosa da poco). Dalla diabolica evasione alla fuga forsennata, da vittima a carnefice, il costante ribaltamento di caratteri e situazioni ha l’unico scopo di procurare un ininterrotto stato di stupore nello spettatore. Cosa che riesce perfettamente – almeno nella prima stagione. Poi, a forza di tenere la bocca spalancata per lo stupore, poco a poco partono fisiologicamente gli sbadigli. Che divengono ahimè – tra la quarta, il film e l’ultima stagione – l’unica costante di riferimento.
Cosa strana: rimane infine solo il desiderio di rientrare in quella prima strabiliante lontana prigione dalla quale si era riusciti ad evadere…
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