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Criminal Minds: le forme rassicuranti del buio | 2 voci, 1 serie
Criminal Minds, podcast | Puntata a cura di Jacopo Bulgarini d’Elci e Livio Pacella
Tra i più longevi e popolari procedural seriali, Criminal Minds, celebre serie americana in onda dal 2005 al 2020 (e rilanciata nel 2022 con Evolution), è esempio perfetto della vocazione consumistica e consolatoria del giallo televisivo prime time. In ogni sua antologica puntata si affronta un serial killer, che costituisce uno “strappo” del tessuto sociale. E lo si ‘risolve’ – nel senso che lo si ferma, arresta, uccide ecc. Soprattutto lo si comprende. Ad ogni modo lo strappo viene ricucito, la società torna ad essere al sicuro. Come discutiamo nel podcast, Criminal Minds soddisfa un bisogno narrativo profondo: ci dà l’illusione che ogni squarcio nel tessuto sociale – un omicidio, una devianza estrema – possa essere isolato, compreso, arginato. È un genere che cura la realtà, o almeno ci convince di poterlo fare.
Una delle conseguenze paradossali delle centinaia di puntate di Criminal Minds è quella di aver dato vita a centinaia di maniaci psicopatici. Come se l’essere serial killer fosse una moda dilagata negli States nel XXI° secolo. Non più bestia rara e ‘monstrum’, il serial killer è potenzialmente chiunque, ovunque. Se non è il tuo vicino di casa, vuol dire che probabilmente sei tu. L’antitesi di quanto viene invece narrato nelle splendide due stagioni di Mindhunter, serie dedicata alla nascita dell’Unità di Scienze Comportamentali dell’FBI. Là dove Mindhunter (a cui abbiamo dedicato anche un articolo) mostra il buio che contamina anche chi lo osserva, Criminal Minds lo contiene in una scatola ben chiusa.
“2 voci, 1 serie”: dialoghi sulle cose che ci piacciono, o ci interessano, nel podcast di Mondoserie.
La promessa della normalizzazione
Criminal Minds, serie creata da Jeff Davis per CBS, vanta 15 stagioni per un totale di 350 (sic) episodi circa, con il revival Evolution (in onda dal 2022). E senza contare gli spin-off Suspect Behavior (2011) e Beyond Borders (2016–17). Tradotta e distribuita praticamente in tutto il mondo (in Italia è su Disney+), nei primi anni teneva incollati allo schermo dagli otto ai dieci milioni di telespettatori americani.
Il format è semplice: l’Unità di Analisi Comportamentale dell’FBI affronta un nuovo caso a ogni episodio, risolvendolo attraverso profili psicologici e indagini sul campo. Strutturalmente, Criminal Minds è costruita su un dualismo: da un lato, la logica ripetitiva e riconoscibile del caso settimanale; dall’altro, una progressiva serializzazione delle vite dei profiler. Questo permette alla serie di fidelizzare senza chiedere troppo: ogni spettatore può entrare e uscire dal racconto senza perderne la struttura profonda. È comfort TV travestita da abisso.
Il paradosso centrale di Criminal Minds è evidente, come spieghiamo meglio nel podcast: una serie costruita sulla devianza estrema – il serial killer – che si regge sulla massima normalizzazione possibile – il procedural. Ogni killer ha una firma, ogni crimine un pattern. E i profiler hanno il compito di ricondurre l’eccezione alla regola, l’orrore alla grammatica. Questo approccio rispecchia una tensione più ampia della cultura americana (e occidentale): l’idea che ogni forma di male possa essere analizzata, catalogata, spiegata.
Criminal Minds è, in apparenza, una serie sulla devianza. Ma è soprattutto una serie sull’ordine. Sul bisogno di dare al pubblico non solo paura, ma anche e soprattutto risoluzione. La sua longevità dimostra quanto questo bisogno sia radicato.
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