The Comey Rule (2020) è una miniserie a sfondo politico basata su una storia vera, gigantesca e (dal punto di vista storico) recente. Cioè i tumultuosi due anni a cavallo delle drammatiche elezioni americane del 2016. Raccontati dal punto di vista di uno dei protagonisti.
E cioè James Comey, direttore dell’FBI. Che prima si trova nella scomoda posizione di riaprire l’indagine sulle famigerate email di Hillary Clinton, contribuendo a consegnare la Presidenza a Donald Trump. E poi ingaggia con quest’ultimo un conflitto senza esclusione di colpi.
Trasmessa in Italia da Sky con il titolo Sfida al Presidente, la miniserie (due episodi lunghi da circa 90 minuti ciascuno, oggi su Paramount+) racconta una vicenda talmente estrema e a tratti surreale da sconfinare nell’incredibile. Ed è uno di quei casi in cui se non sapessimo che la vicenda di partenza, pur romanzata, è reale, faticheremmo a non considerare la narrazione del tutto esagerata e sopra le righe.
The Comey Rule tra realtà e finzione
Allo stesso tempo, è un esempio assai interessante dell’enorme difficoltà insita nel provare a raccontare eventi troppo vicini: come se la realtà, alla prova della fiction, opponesse resistenza. Persino la nostra realtà degli ultimi anni, una realtà accelerata e costantemente sotto steroidi. Anche, sul fronte americano, grazie alla radicale esuberanza con cui Trump ha guidato la Casa Bianca. Sempre pronto a fare a pezzi regole, consuetudini, norme scritte e non scritte.
Come nel caso di James Comey, direttore dell’FBI. Con cui Trump prima cercherà di instaurare un rapporto fin troppo amichevole rispetto alla normale distanza tra l’agenzia investigativa, storicamente indipendente, e l’esecutivo. E che poi arriverà a licenziare brutalmente quando il poliziotto non vorrà piegarsi alle insistenti richieste di “lealtà” del padronale presidente. Una dinamica ben illustrata dalla scena della cena tra i due, che vediamo qui.
“Una lealtà superiore”
“A Higher Loyalty”, Una lealtà superiore, è infatti il titolo del libro di memorie pubblicato da Comey dopo il proprio licenziamento: quando la “resistenza” contro il dispotico Presidente lo avrebbe trasformato in idolo del pubblico liberal statunitense.
Ed è proprio questo volume a costituire la base della miniserie, scritta e diretta da Billy Ray, sceneggiatore di Captain Phillips (2013) e Richard Jewell (2019). Con l’ovvia implicazione di una resa abbastanza agiografica del direttore dell’FBI.
Un uomo tutto d’un pezzo (non a caso interpretato – bene – dal sempre più civilmente impegnato Jeff Daniels), disposto ad assumere decisioni giuste anche se scomode. In prima battuta quando a poche settimane dal voto del 2016 riapre le indagini sulle email della Clinton (perché alcune e-mail del famigerato server sono apparse in un nuovo scandalo di sexting sul computer portatile di Anthony Weiner, di cui abbiamo parlato raccontando l’allucinante documentario Weiner).
La mossa dell’FBI è, con ogni probabilità, quella fatale. Che costa alla Clinton la sconvolgente sconfitta sul filo di lana. E rende Comey un bersaglio anche a sinistra. Salvo poi redimersi quando, ed è la seconda “resistenza”, non accetta le richieste trumpiane di impunità per la propria cerchia di collaboratori e amici. Divenendo rapidamente un nemico per l’impulsivo Presidente e, ovviamente, un’icona per i Democratici.
The Comey Rule: pregi e difetti
Se l’obiettivo era quello di contribuire a chiarire le opache e intricate vicende di quegli anni, non si può dire per la verità raggiunto. The Comey Rule è un po’ scolastica nella messa in scena e al contempo, paradossalmente, piuttosto caotica nell’illustrare la complessa materia.
In compenso, è illuminata da due elementi.
In primis la performance, titanica, di Brendan Gleeson: il Trump dell’attore irlandese può sembrare esagerato e ridicolo, a partire da trucco e parrucco. Ma traduce perfettamente la regola dell’eccesso dell’ex (e forse futuro) Presidente, di cui sa cogliere quella vena di crudeltà minacciosa e capricciosa spesso occultata con la scusante della “atipicità”. Che nel tempo è quasi divenuta un alibi, una scusa per qualsiasi violazione delle leggi scritte e di quelle non scritte. “Che ci vuoi fare, Trump è così… non è come tutti gli altri… ha le sue regole…”.
La fragilità delle istituzioni democratiche
Il secondo aspetto prezioso è il riflettore che accende sulla fragilità delle istituzioni democratiche, molto più vulnerabili alle minacce di quanto tendiamo a pensare. Come ha ben mostrato il caos post-elettorale dopo la sconfitta di Trump nel 2020, e come abbiamo raccontato nella nostra riflessione sulla rappresentazione della politica e del potere in tv.
Anche nelle elezioni USA 2020, come abbiamo un po’ alla volta appreso, a fare la differenza sono stati alcuni funzionari pubblici, spesso proprio conservatori, che hanno rifiutato le pretese del dispotico Presidente.
Governatori, Segretari di Stato, responsabili dei processi elettorali, membri di commissioni locali. Che, anche messi alle strette, hanno scelto di ribadire verso le istituzioni che avevano giurato di servire, anche loro, a higher loyalty.
Giudizio: storia incredibile; eppure, in larga parte, vera. E istruttiva.
Scandali, politica, eccessi: il caso Weiner
Una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata il 13 dicembre 2020 su The Week, settimanale del gruppo editoriale Athesis.