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Ridley Road e la mia estate “nazista” | Serie & vita

La miniserie inglese non decolla, pur ispirandosi a una storia notevole. In compenso, fa riaffiorare la memoria autobiografica di una disavventura estiva di 20 anni fa…

di Francesca Sarah Toich
13/05/2022
in Articoli, Artwork
Cover di Ridley Road per Mondoserie
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Serie BBC in 4 episodi del 2021, Ridley Road fa rivivere il neo nazismo del dopoguerra in Inghilterra. Hitler è morto da più di quindici anni, ma non le sue ideologie. Anzi. Focolai neonazisti si sparpagliano ovunque, capitanati dall’inquietante figura di Colin Jordan, interpretato nella serie dal superbo Rory Kinnear. Le prede di questo minaccioso gruppo sono naturalmente gli ebrei. 

Ci troviamo a Manchester nel 1960. Una ragazza di nome Vivian Epstein (Agnes O’Casey) fugge dalla sua famiglia ebrea che le sta organizzando un matrimonio combinato. E raggiunge a Londra Jack, il suo vero amore, ebreo anche lui, che però si finge neonazista, infiltrandosi tra le file di Jordan. 

La protagonista di Ridley Road non ci penserà due volte ad affiancare il suo amato nella lotta contro il nemico. Si tingerà i capelli di biondo e tenterà di sedurre proprio Colin Jordan, per sottrarre importanti informazioni. 

Ridley Road: ispirata a una storia vera

Ispirata a fatti realmente accaduti, Ridley Road (che prende il nome dalla zona londinese di ritrovo dei movimenti neofascisti) è un’accurata ricostruzione dell’epoca nello spirito e nei costumi. Ci racconta il carisma del comandante Jordan, le sue storielle d’amore e i suoi occulti finanziatori, che gli prestano addirittura un castello (dove si svolge parte della serie) per addestrare i suoi ragazzi alla lotta contro la minaccia giudaica.

Tuttavia, pur rispolverando un fatto storico molto interessante e ad oggi dimenticato, con i mezzi della BBC ed un cast eccellente, Ridley Road non decolla. 

Rimane un limitato affresco di due gruppi distinti: neo nazisti contro ebrei di quartiere, nelle loro minacciose lotte ideologiche in cui sono naturalmente in gioco le loro vite.

Un peccato non aver dato al racconto e ai fatti un respiro più ampio. Cercando magari di comprendere non solo la situazione storica dell’epoca, ma perché un movimento fallimentare come il nazismo non abbia mai smesso di avere adepti sfegatati in Europa e nel mondo. 

Del resto, quella raccontata da Ridley Road non era un’impresa facile. Proprio spinta da questo dilemma, una ventina d’anni fa, appena adolescente mi sono infiltrata anch’io in un gruppo neo nazista. 

Trovarsi – senza saperlo – in un campo estivo nazista 

Era estate. Per motivi misteriosi avevo vinto un soggiorno estivo con dei compagni di scuola in un villaggio vacanze in Puglia. Fin dall’arrivo mi fu chiaro che il premio era, come si dice in francese, un cadeau empoisonné (un regalo avvelenato). Il luogo era caldo e orribile. Gli edifici dove eravamo ospitati in decadenza anche se appena costruiti. Trasudavano tristezza.

Probabilmente era uno dei tanti villaggi vacanze mal progettati, eretti su un suolo arido e senz’acqua. Insomma, mi aspettavano due settimane d’inferno. Nel vero senso della parola dato che naturalmente non c’era un filo d’aria e il caldo era soffocante.

Uno dei compagni di scuola e compagno di questa disavventura era un (falso) neo nazista. Falso perché come quasi tutti gli adolescenti di piccola provincia non si rendeva minimamente conto di cosa volesse dire far parte del Movimento. A lui bastava mettersi gli anfibi e il bomber per sentirsi parte di qualcosa. Era contento così. Aveva imparato due o tre parole in tedesco ed era tutto. Ah, teneva in camera una copia del Mein Kampf che senza dubbio non aveva mai letto.  

Siamo sempre stati amici nonostante le divergenze: trovavo talmente ridicolo il suo essersi affiliato al famigerato squadrone nero della nostra piccola città d’origine, talmente superficiali le sue motivazioni politiche che non avevo mai pensato di preoccuparmi. Così, quando mi annunciò di non essere il solo -falso- neo nazista della vacanza ma che l’intero squadrone nero della città da cui provenivamo sarebbe arrivato di lì a poco, quasi quasi me ne rallegrai: avevo trovato qualcosa da fare all’Inferno. 

Indagare la malvagità del banale tra gli adolescenti.

Lo squadrone arrivò quel pomeriggio con altri autobus. Si trattava di un gruppetto di una ventina di ragazzotti: alcuni, studenti come noi, avevano ricevuto in regalo il soggiorno, altri erano stati pronti a pagare. Pagare per stare tutti assieme in vacanza e consolidare lo spirito del branco. Loro avevano un grande appartamento tutti assieme: io condividevo il mio con altri compagni di classe nello stesso orrido complesso di caseggiati. 

Dopo qualche ora di adattamento, come un gatto curioso e schivo cominciai ad insinuarmi nel loro appartamento ad ore alterne con la scusa di venire a salutare il mio amico. Volevo vedere come si comportavano i neo nazi in vacanza al mattino, al pomeriggio e alla sera. Loro non erano particolarmente interessati a me. Non ero bella, non ero fascista, tantomeno nazista. Ma se volevo, potevo gironzolare nei paraggi, e così feci per quelle due settimane di ritiro forzato. 

La cosa che mi colpì fin da subito fu l’organizzazione gerarchica dello squallido appartamento. C’era il capo, un grosso muscoloso individuo dall’aria bonaria che era esentato da ogni dovere pratico. Lui era la Guida Spirituale del gruppo che in quella lunga vacanza l’avrebbe seguito e adorato come un dio. Poi c’erano gli eletti: altri ragazzi muscolosi che da qualche tempo militavano nel gruppo. Anche loro erano esentati da quasi tutti i doveri. Mi sembra di ricordare che potessero cucinare, ma non ne sono sicura. Subito dopo nella scala venivano “gli apprendisti”: i ragazzi più giovani (tra cui il mio amico) che dovevano ancora farsi le ossa. Loro venivano mandati ogni sera in avanscoperta in Campo Aperto (lo squallido centro del villaggio) a scoprire se c’era qualcuno da picchiare. Di preferenza uno straniero, meglio se nero.

Ma già dalla prima sera la missione andò buca: non c’erano stranieri, solo italiani. Allora i capi dopo una riunione si risolsero ad una decisione diversa. D’ora in poi se la sarebbero presa con le persone che indossavano magliette rosse: senza dubbio comunisti, dicevano. Io ascoltavo attonita lo snocciolarsi di tante belle idee. Ma il vero motivo per cui ero rimasta ad osservarli, la vera ragione che mi faceva star lì ad ascoltare mane e sera le loro cavolate intervallate da canzoni fasciste era l’ultimo soggetto della scala gerarchica. Il loro schiavo. 

Ebbene, si erano portati uno schiavo, volontario. Era un ragazzo piuttosto brutto, mingherlino e silenzioso. Ricordo che il primo giorno, dopo che tutti erano andati in spiaggia, andai a parlargli. Lui naturalmente era rimasto a pulire l’appartamento: non aveva un momento libero. In quanto schiavo doveva lavare tutta la loro biancheria, nonché i pavimenti, stoviglie, rifare i letti e tutto il resto. Dopo aver scambiato le prime parole mi fu chiaro che si trattava di qualcuno di estremamente intelligente. Era più grande di me, già iscritto all’università: filosofia. 

“Tu ti interessi di filosofia, ma cosa fai qui? Non vedi come ti maltrattano? Sei l’ultima ruota del carro di una manica di imbecilli.”

“Non sono l’ultima ruota del carro” mi corresse “sono il loro schiavo. Ed è giusto così. Il mio capo è bello e forte, io sono brutto e debole.”

Parlammo un po’ di Hegel e poi lui tornò a lavare i pavimenti con dedizione. 

Per tutto il resto della vacanza andai regolarmente a tormentarlo durante i suoi lavori domestici, cercando di fargli cambiare idea. Solido come una roccia, restava muto a riguardo dei suoi commilitoni. Muto e adorante. Per il resto, giudicava quel tempo un’esperienza sulla propria pelle delle tanto decantate filosofie di servo-padrone. In quindici giorni non uscì mai dall’appartamento. 

Lo squadrone, come sospettavo, si rivelò del tutto innocuo. Anzi, dato che il capo si era trovato una ragazza a cui piaceva il rosso, non si poteva nemmeno più dar la caccia ai comunisti. 

Il momento topico fu la sera del solstizio, il 21 giugno. Immaginando di omaggiare qualche sconosciuta divinità celta, sfoderando le loro croci celtiche tatuate sui dorsi sudati, in silenzio i giovani neo nazi aspettarono la calata delle tenebre. Il loro capo, che aveva digiunato tutto il giorno, si presentò pallido e ispirato, con una torcia in mano. Vennero intonate un paio di canzoni e tutto finì lì anche se per loro era una festa dal valore mistico che si sarebbero portati nel nero cuore per tutto l’inverno. 

Tornai dalla vacanza perplessa ma con una sola certezza: a quanto pare in certi ambienti lo schiavo è più intelligente del padrone.  

Serie & Vita: leggi il nostro racconto ispirato a La regina degli scacchi! 

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Francesca Sarah Toich è un’artista che vive e lavora a Parigi, dove ha una compagnia di teatro e magie nouvelle. Scrittrice, autrice, attrice, ha vinto il primo premio nel concorso internazionale di scrittura per lo spettacolo “Premio Goldoni Opera Prima” con la tragedia intitolata “Diotallevi” e ha pubblicato due romanzi fantasy per ragazzi. Ha prestato la sua voce a numerosi film, documentari, installazioni artistiche e radiodrammi (in particolare per RAI radio Italia). Specializzata in Commedia dell’Arte e letteratura italiana è stata premiata come migliore giovane interprete della Divina Commedia, vincendo per due volte il Lauro Dantesco a Ravenna. Insegna e recita in italiano, inglese e francese in numerose compagnie di teatro e ricerca, ed ha portato le sue performance in prestigiosi teatri e gallerie d’arte in varie parti del mondo tra cui recentemente a New York, Mosca e Tokyo.

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