Che cos’è davvero Hollywood? Un’industria, un’ideologia, un’identità, una forma di potere mascherata da sogno collettivo? The Studio, serie satirica creata da Seth Rogen e trasmessa con pieno successo da Apple TV+ nella primavera 2025 (10 episodi, già rinnovata per una seconda stagione), risponde a questa domanda con un’esplosione di ironia, disincanto e amore assoluto per lo stesso mondo che prende in giro.
Ambientata nei corridoi, negli uffici e nelle riunioni del fittizio colosso Continental Studios, la serie segue Matt Remick, un dirigente appena promosso a capo dello studio. Un idealista – almeno in apparenza – che si dibatte quotidianamente tra il suo amore per il cinema e la macchina spietata che lo circonda. Riunioni disfunzionali, guerre tra produttori, celebrità capricciose, dirigenti assetati di potere… E una montagna di compromessi.
The Studio appartiene a quel raro sottogenere della comedy americana che riesce a essere feroce e affettuosa allo stesso tempo. Come già avevano fatto show leggendari quali The Larry Sanders Show o 30 Rock, la serie sa ridere dell’ambiente che ritrae, e dei suoi protagonisti, senza mai perdere il senso dell’umano. Ma qui il bersaglio è più specifico e più ampio insieme: non solo il mondo dello spettacolo, ma la sua struttura industriale, il suo linguaggio, la sua ossessione per l’immagine e l’ego. È una satira che fustiga il culto crescente della “proprietà intellettuale”, la paura di fallire, la schiavitù dei social e del politicamente corretto, la deriva del contenuto come merce. Eppure lo fa da dentro, con occhi pieni di affetto.
The Studio vuole smascherare – e al tempo stesso celebrare – la fabbrica dei sogni. Con tutte le sue crepe e le sue meraviglie.
Dietro le quinte: creazione, produzione e tono
The Studio nasce dalla mente di Seth Rogen e Evan Goldberg, già noti per aver portato sullo schermo un umorismo brillante, irriverente e sorprendentemente consapevole. Insieme a Peter Huyck, Alex Gregory e Frida Perez, Rogen costruisce qui una serie che fonde satira e cringe comedy in modo radicale. Prodotta da Lionsgate Televion e Point Grey e distribuita su Apple TV+, la serie è ambientata nella sede della fittizia “Continental Studios”. E si muove interamente all’interno dell’universo cinematografico hollywoodiano, in un momento storico in cui l’industria è sempre più dominata dalla logica dei franchise e del contenuto-merce. La regia – firmata per tutte e 10 le puntate della prima stagione dallo stesso Rogen e Goldberg – adotta un approccio da single camera, valorizzando gli spazi ristretti e la tensione delle interazioni verbali.
Visivamente, la serie è sorprendentemente sofisticata: la sede dello studio è ispirata all’architettura Mayan Revival di Frank Lloyd Wright, con rimandi evidenti alla celebre Ennis House. Le riprese si svolgono a Los Angeles, anche in case disegnate da John Lautner, e questo conferisce all’ambiente uno strato ulteriore di cultura visiva cinefila. Il tono mescola realismo e assurdo, con dialoghi che spesso sembrano improvvisati ma sono in realtà costruiti con attenzione chirurgica. La colonna sonora di Antonio Sanchez – già compositore di Birdman – aggiunge ritmo e un’ironia “jazz” alle scene.
Stilisticamente caratterizzata da lunghi e raffinati piani sequenza, la serie adotta un linguaggio filmico che riflette la sua ossessione per il cinema: la forma è parte del contenuto. I rimandi a film del passato e del presente sono infiniti, costanti: chi sa coglierli godrà molto più dello spettatore distratto. The Studio è un prodotto metacinematografico che parla dell’industria della settima arte. Senza perdere mai una comicità travolgente.
The Studio: dieci episodi, dieci satire
La stagione 1 di The Studio è composta da dieci episodi, ciascuno incentrato su una crisi, una contraddizione o un paradosso del sistema Hollywood. La continuità narrativa è garantita dai personaggi principali: Matt Remick, il nuovo studio head interpretato da Rogen; Patty Leigh (Catherine O’Hara), ex dirigente e sua mentore; Sal Saperstein (Ike Barinholtz), amico e vicepresidente della produzione; Maya Mason (Kathryn Hahn), responsabile marketing; e Quinn Hackett (Chase Sui Wonders), giovane executive in ascesa.
Ogni episodio vede anche l’apparizione di una o più guest star famose nei panni di sé stesse, da Martin Scorsese a Ice Cube, da Zoë Kravitz a Ron Howard, da Steve Buscemi a Olivia Wilde, in un gioco costante di specchi tra rappresentazione e realtà.
La struttura è fissa: ogni puntata ruota attorno a un progetto, una decisione, una trattativa, una premiazione o un evento dell’industria. Ma è la scrittura a trasformare la ripetizione in variazione, esplorando le nevrosi dell’ambiente hollywoodiano con umorismo chirurgico. La serie fa leva su un’ironia corrosiva, in cui la vanità, l’opportunismo, l’insicurezza e l’ipocrisia diventano materia prima per una commedia che affonda i denti. Senza, volutamente, mai diventare cinica.
The Studio riesce così a costruire una narrazione densa, pur mantenendo ogni episodio godibile come unità a sé. L’equilibrio tra arco orizzontale e autoconclusività è uno dei suoi punti di forza. Insieme alla capacità di sfruttare le celebrità non come ornamento, ma come specchio di sé stesse (e del sistema di cui sono protagoniste).
Episodi 1–2: Kool-Aid e cinema d’autore
Il primo episodio di The Studio è folgorante, e setta il tono dello show. In The Promotion, Matt riceve la tanto agognata promozione a capo dello studio. Ma c’è un prezzo da pagare: produrre un film sul Kool-Aid Man (la risibile mascotte della Kool-Aid, bevanda analcolica popolarissima negli States e quasi centenaria). L’episodio espone subito il paradosso centrale della serie: il conflitto tra arte e mercato. Matt vorrebbe trasformare l’assurda premessa in un film serio e affida la regia a Nicholas Stoller. Ma, quando scopre che Martin Scorsese ha scritto un copione sul massacro di Jonestown, decide di far coincidere i due progetti. L’esito è disastroso: Scorsese si sente tradito, Stoller si dimette, e Matt viene cacciato da una festa da Charlize Theron. Il tono è farsesco, ma la riflessione è seria: può esistere ancora un cinema adulto in un sistema dominato da merchandising e sfruttamento intensivo della proprietà intellettuale?
Nel secondo episodio, The Oner, Matt e Sal visitano il set di un film romantico diretto da Sarah Polley e interpretato da Greta Lee, nella speranza di assistere a un elegante piano sequenza al tramonto. Ma la loro presenza rovina tutto: tra richieste assurde, interruzioni e figuracce, fanno perdere l’unico momento utile per girare la scena. L’episodio è una satira dell’ego produttivo, dell’incapacità dei dirigenti di “non intervenire” e dell’ossessione per il controllo che finisce per sabotare l’arte. Il finale, in cui il tramonto viene mancato e Matt viene espulso dal set, è una perfetta metafora del cinema come lavoro artigianale sabotato dai vertici dell’industria. E un fantastico omaggio alla più celebre distruzione creativa di un set, quella inscenata da Peter Sellers in Hollywood Party (1968).
The Studio, episodi 3–6: venerati maestri e conflitti
The Note (episodio 3 di The Studio) affronta una delle dinamiche più delicate di Hollywood: la “nota” del produttore. Dopo aver visto l’anteprima del nuovo film di Ron Howard, Alphabet City, il team concorda su un problema: il finale nel motel è troppo lungo e andrebbe tagliato. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo al regista, leggendario e permaloso. Matt è traumatizzato da un precedente simile con A Beautiful Mind, e la situazione si complica quando si scopre che la scena è dedicata al cugino defunto di Howard…
In The Missing Reel, Olivia Wilde dirige un film noir per lo studio, ma uno dei rulli – contenente una scena costosa – sparisce. Matt e Sal indagano come detective in una commedia degli equivoci che coinvolge Zac Efron, un misterioso tatuaggio e una festa segreta al Chateau Marmont. L’intera puntata – una satira su creatività e burocrazia – è girata nei toni di un vecchio film noir.
Gli episodi 5 e 6 sono i meno incisivi della stagione 1 di The Studio, pur toccando temi rilevanti. The War racconta con tono da farsa feroce le guerre interne allo studio. In questo caso, la discussione per scegliere il regista del prossimo film horror, e il conflitto tra due collaboratori di Matt. Sal propone Parker Finn (Smile), mentre Quinn punta su Owen Kline. Ne nasce una serie di sabotaggi incrociati.
In The Pediatric Oncologist, la satira si sposta dal mondo del cinema a quello della “vita reale”: Matt accompagna la nuova fidanzata – una pediatra oncologa – a un evento benefico. Ma si ritrova spaesato in un ambiente in cui il cinema viene trattato con sufficienza. L’episodio mostra il fragile ego hollywoodiano, incapace di accettare che il mondo non ruoti attorno alla cultura pop.
Episodi 7–8: razzismo, visibilità e premi
In Casting (7×01) la serie affronta uno dei temi più attuali e scivolosi dell’industria: la rappresentazione etnica, il politicamente corretto, il timore di suscitare controversie. Dopo aver scelto Ice Cube come voce del Kool-Aid Man, lo studio si perde in discussioni su stereotipi, blackwashing, e sull’uso dell’IA per risparmiare sull’animazione. Per sfuggire al rischio di razzismo, il cast viene modificato più volte (fino a diventare mono-razziale!). I dialoghi vengono rimaneggiati, gli sceneggiatori si auto-eliminano, e la situazione degenera in una conferenza stampa disastrosa.
L’episodio è una satira affilata del “linguaggio inclusivo” usato come paravento per logiche di marketing. E del caos ideologico che si scatena quando le aziende cercano di speculare sulle politiche identitarie senza reale ascolto o coerenza. Uno dei momenti più acuti e disarmanti di The Studio, dove nessuno ha ragione, e tutti sembrano partecipare a un meccanismo che sfugge di mano.
The Golden Globes è invece una delle vette metanarrative della stagione. Matt è ossessionato dall’idea di essere ringraziato durante i discorsi di accettazione dei prestigiosi premi. E cerca goffamente di assicurarsi che Zoë Kravitz, in predicato di vincere per un film che lui ha sostenuto, lo menzioni. Intanto Sal diventa una star per una battuta di Adam Scott (il protagonista di Severance) durante la premiazione.
L’episodio è una riflessione sul bisogno di visibilità nell’epoca del “tutto pubblico”: per molti produttori, il momento clou dell’anno non è il successo di un film, ma il proprio nome pronunciato su un palco. La satira di The Studio qui si fa malinconica, e la figura di Matt – pur ridicola – diventa anche tragicamente umana. Un uomo che cerca legittimazione in una macchina che premia solo chi riesce a rendersi visibile.
Il gran finale della stagione 1 di The Studio
CinemaCon e The Presentation, ultimi due episodi della prima stagione di The Studio, costituiscono un unico arco narrativo ambientato a Las Vegas, in occasione della presentazione del listino annuale di Continental Studios.
Il CEO Griffin Mill – figura grottesca e senile interpretata con lucidissima demenza da un fantastico Bryan Cranston (Breaking Bad), che chiaramente si diverte da morire ad abbracciare la farsa – dovrebbe tenere il discorso più importante dell’anno. Ma si perde tra alcol, funghi allucinogeni e imbarazzanti figuracce pubbliche. Intanto Matt, Sal, Patty e gli altri cercano disperatamente di salvare la faccia dello studio, mentre Zoë Kravitz lotta con una performance influenzata da un’intossicazione involontaria. Il caos cresce fino a un’esilarante presentazione finale, in cui Griffin, sospeso da cavi come una marionetta e in stato confusionale, riesce solo a balbettare “movies” davanti alla platea: e quella singola parola, “film”, viene trasformato da Matt in slogan ritmato. Il pubblico esplode in applausi: “Film! Film! Film!”.
Questi due episodi finali rappresentano un compendio perfetto dello spirito della serie: la disperazione dietro l’apparenza di successo, la fragilità del potere, la necessità di fingere che tutto vada bene – anche quando tutto è palesemente fuori controllo. Ma mostrano anche la strana capacità di Hollywood di sopravvivere a sé stessa, di fare del disastro un’occasione per brillare.
Un finale travolgente, una vetta comica tra le produzioni degli ultimi anni. A metà tra Weekend con il morto, i disastri della Pantera Rosa e un musical post-apocalittico. Che ci lascia con un pensiero: forse è proprio questa assurda resilienza dell’industria a renderla irresistibile. In fondo, è la fabbrica dei sogni. Anche quando i sogni diventano trip da acido ad occhi più o meno aperti.
Una satira affettuosa della fabbrica dei sogni
The Studio è una serie comica, sì, e straordinariamente divertente. Ma è anche – e forse soprattutto – un gesto d’amore verso il cinema e la sua industria. Ogni episodio mette in luce le contraddizioni, le vanità, le meschinità e le follie del sistema hollywoodiano. Ma senza rancore, senza cattiveria gratuita. Al contrario: si percepisce costantemente l’intimità degli autori con quel mondo, la loro capacità di riderne proprio perché ne conoscono i meccanismi più profondi, e forse anche perché lo rispettano.
Seth Rogen interpreta Matt con un equilibrio perfetto tra patetismo, tenerezza, insicurezza e sensi di colpa, incarnando una generazione di produttori cresciuti con il culto del cinema d’autore e oggi costretti a “fare i conti” con l’algoritmo, i social, le pressioni del brand. La sua frase chiave arriva già nel primo episodio: “I love movies, but now I have this fear that my job is to ruin them”. Amo i film, ma ora ho paura che il mio lavoro sia rovinarli. Frase detta davvero a Seth da un produttore, anni prima, in un momento di sincerità.
The Studio non vuole demolire Hollywood, e Seth Rogen non è Robert Altman o neppure Ryan Murphy. E viene da dire – per fortuna. Il suo sguardo non è ideologico né moralistico. Ha l’innocenza del bambino che dice “Il re è nudo”. E l’irriverenza del giullare che al re nudo – l’industria cinematografica nella sua infinita vanità – regge uno specchio.
In cui rimirarsi e, forse, scoprire di essere in grado di ridere di sé.
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