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Too old to die young – un capolavoro insostenibile

La serie, il capolavoro di Refn, è un eccezionale film in 10 capitoli di pura autorialità. Ritmi difficilissimi, bellezza assoluta.

di Livio Pacella
14/10/2022
in Articoli, Artwork
Cover di Too Old to Die Young per Mondoserie
1.9k
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Too Old to Die Young (Prime Video di Amazon, 2019) è una delle serie più autoriali degli ultimi anni. Creata da Nicolas Winding Refn (Pusher, Drive, Only God Forgives…)  – regista di tutti gli episodi – cineasta estremo e controverso, assieme ad Ed Brubaker (brillante e pluripremiato sceneggiatore di fumetti). Essenziale, nella produzione di questo capolavoro, il lavoro di Darius Khondji e Diego Garcia come direttori della fotografia, e di Cliff Martinez per la parte sonora e musicale.

Dieci episodi della durata di un film (dai 75 ai 90 minuti), a parte l’ultimo che è una sorta di coda di mezz’ora: allucinati, rarefatti, insopportabili. E meravigliosi. La diversa durata degli episodi è data dalla necessità del regista danese di chiudere il volume lì dove sentiva necessario chiuderlo. Senza lasciarsi imbrigliare dai canoni formali del format seriale.

La televisione per Refn è “tutto reality show e notizie”. Per lui la totale libertà di forma e contenuto essendo la conditio produttiva sine qua non, Too Old to Die Young andrebbe visto come un lunghissimo film diviso in capitoli, che ognuno è libero di visionare nella quantità e nell’ordine che più gli garba. Questi episodi esplorano il folle universo di Refn e Brubaker attraverso la centralità di figure archetipiche, provenienti dai tarocchi (già qui sentiamo l’influsso di Jodorowsky), che ritroviamo nei titoli: il Diavolo, l’Eremita, il Matto, la Sacerdotessa, il Mago, l’Imperatrice…

L’intento dell’autore danese è di ridurre gli episodi alla loro essenza filmica, al loro valore assoluto. Rompendo con la logica thriller crime di fremente attesa e cliffhanger che caratterizza ad esempio il binge watching. E di trasformare la visione, ormai libera dalle catene del prima e del dopo narrativi, in un presente di puro godimento fine a se stesso.

https://youtu.be/I4Dol6VpmWc

Ultraviolenza nell’America di Trump

Come in Twin Peaks e in The Kingdom – due vette autoriali della serialità televisiva di cui abbiamo parlato nei podcast linkati – anche in Too Old to Die Young si passa da una surreale e macabra comicità nera ad una tensione dannatamente drammatica. Senza soluzione di continuità, attraversando la mistica visionaria di Refn.

La storia non viene tanto narrata, quanto piuttosto evocata. Attraverso raffinati quadri pittorici dove prevalgono l’abbaglio delle luci al neon ed inverosimili dilatazioni dello spazio e del tempo. Silenzi lunghissimi. Azioni lentissime e ridondanti. L’esatto opposto della narrazione ellittica e frenetica che contraddistingue l’attualità seriale.

Protagonisti di questo mondo oscuro e psichedelico sono bellissimi angeli e sacerdotesse della morte. Oppure esseri ripugnanti e grotteschi. Figure irreali e mitologiche incastrate in una ragnatela ontologica di ultraviolenza. La violenza è la chiave di quest’oasi di miraggi ed enigmi. L’arte stessa, secondo Refn, non è che un atto di violenza. E l’ispirazione primaria di quest’opera, sempre a suo dire, è venuta dall’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Si tratta quindi della decadenza di un’America sempre più maledettamente totalitaria: la bandiera nazista attorniata da dollari che compare verso la fine non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Come nel monologo finale di Diana:

“Presto la violenza diventerà erotica. La tortura euforica. Mentre le masse inneggeranno alle pubbliche esecuzioni, alimentate dalla furia del fascismo.

I campi di concentramento verranno ricostruiti. L’ignoranza verrà esaltata.

E cominceranno guerre razziali, perché l’odio sarà ricompensato, e considerato veritiero e meraviglioso. La fede sarà ridotta a velenose banalità. La schiavitù del pensiero contaminata dalla morfina. La perversione verrà nobilitata. Incesto, molestie e pedofilia saranno lodati. Lo stupro verrà premiato. Pochi avranno tutto, e i più non avranno niente”.

Too Old to Die Young: Martin e Jesus

In questa Los Angeles notturna e apocalittica, tra poliziotti sovranisti e ultracristiani, snuff movie, killer tossici, stupratori e pedofili, genitori incestuosi e adolescenti cocainomani, si consuma il viaggio di sola andata nelle tenebre di Martin Jones (Miles Teller). 

Poliziotto corrotto, detective imperscrutabile, sicario per conto di una gang, fidanzato con una minorenne, fatale sarà il suo incontro con Diana (Jena Malone), avvocato civile e medium spirituale, e con il suo braccio destro Viggo (John Hawkes), ormai prossimo alla morte. La coppia ha deciso di ripulire la città dalla sua peggiore feccia. Vendicando, tramite esecuzione, gli abusi e i soprusi più aberranti patiti dagli assistiti di Diana.

Il percorso di Martin verso un’impossibile e irraggiungibile luce è al contempo un percorso di distruzione. Verso il proprio giudizio finale e la propria apocalisse. In parallelo scorre il viaggio di Jesus (Augusto Aguilera), affascinante angelo del male e mefistofelico boss di un cartello della droga, che torna in Messico dopo la morte della madre per poter rinascere e compiere il proprio sanguinoso destino di vendetta e devastazione. Jesus si trasforma in un essere di pura malvagità. Una malvagità disinteressata, quasi trascendentale. 

In Messico egli ritrova un deserto assolato e metafisico, un paese senza legge, libero e assoluto. “Io sono messicano, sono stato fatto con il sangue e con la polvere di questo Paese, io sono questo Paese e il Messico è il mondo reale, il futuro della civiltà. Vi condurrò in un tempo in cui regnerò e tutti si inchineranno a noi, in un tempo in cui sarò un Dio”.

E questo Messico sarà come un serpente che lentamente strangola, soffoca ed avvelena gli Stati Uniti.

“E maschi e femmine Iddio li creò”…

Nel penultimo episodio tornato negli U.S.A. Jesus dirà: “Voglio più tortura, più violenza, più stupri… Trasformerò questa città in un parco del dolore… Sarò ancora qui quando l’America sarà solo un mucchio di rovine”. Il compito di questo anticristo chiamato Gesù è la distruzione totale dell’America, il compimento di quella apocalisse che da troppo tempo incombe nella corruzione e nel marcio di quella terra senza speranza.

In Too Old to Die Young, a detta dello stesso Refn, gli uomini vengono demoliti, mentre le donne sono la speranza. Martin è costretto a vagare tra le bestie e le ombre, senza mai riuscire a decifrare il suo stesso enigma. Straordinaria la scena in cui si confronta con il padre (William Baldwin) – produttore cinematografico e porco – della sua giovanissima amata (Nell Tiger Free), in una saletta per le proiezioni, davanti ad una scena che rappresenta fedelmente il suo passato da sbirro corrotto.

Oltre la doppia identità di Diana, vi è quella di Yaritza (Cristina Rodlo), la giovane moglie di Jesus, con lui a capo del cartello. Lei è anche La Grande Sacerdotessa della Morte. Che vendica – con una pistola tempestata di diamanti – giovani donne costrette a prostituirsi. Agendo non solo ad insaputa, ma anche contro gli interessi della propria organizzazione criminale.

Luci nere e furia vendicatrice in Too Old to Die Young

Una furia vendicatrice muove entrambe queste giustiziere, Yaritza e Diana, così simili e così diverse allo stesso tempo. L’una destinata a divenire una leggenda, oggetto di canzoni popolari: “Io sono la Sacerdotessa della Morte, il seme della distruzione, nata dal deserto infuocato, una macchina di puro sterminio che elimina tutto il male dall’universo”.

L’altra, in contatto con gli spiriti, che si affida a Viggo, un ex agente dell’FBI con un occhio di cristallo, in seguito ad una pallottola in testa. Come Odino che dà il suo occhio per ricevere la sapienza suprema. E le visioni finali di Viggo sono i simboli supremi della morte dell’America: “Mentre il mondo si spezza, qualcuno deve restare qui a proteggere l’innocenza”. 

Nell’orrore e nella malattia del nostro tempo, confuse tra le ombre si aggirano queste luci nere, mistiche e maschili. Mentre l’unica giustizia possibile, in questo spaventoso inferno, ha femminili fattezze e si dedica a vendetta e sterminio. Che sia nichilista o portatrice di speranza, l’ultraviolenza manifestata dai protagonisti maschili e femminili di Too Old to Die Young ne intreccia indissolubilmente i diversi cammini. Secondo la teoria dell’inconscio collettivo di Jung (tanto cara a Jodorowsky), che non a caso viene citato da un improbabilissimo personaggio.

Che sia nei sobborghi della Los Angeles della gang afroamericana di Damian (Babs Olusanmokun) o nel teatro primordiale del deserto messicano, è inevitabile e deflagrante lo scontro tra le magnetiche incarnazioni di questi demoni ancestrali. In un’enigmatica atmosfera da fiaba che mescola sacro e profano, morte e bellezza, innocenza e sterminio.

Come se la pellicola scorresse tra le sabbie mobili…

Spiriti, magia e sciamani irrompono nella parte finale di questo lunghissimo film, ribaltando completamente trama e logica di genere con cui tutto era iniziato… Chi sembrava indiscutibilmente centrale e insostituibile è divenuto letteralmente carne da macello, costringendoci a domande sul senso di questa nerissima fiaba. Domande destinate a restare senza risposta, a riecheggiare nel vuoto.

Lontanissimo dunque da qualsiasi volontà di intrattenimento, Too Old to Die Young trasmette un’incessante tensione estetica. Con svariati ‘sovraccarichi sensoriali’ dello spettatore, immerso in un lento ed inesorabile flusso ipnotico. Talvolta squarciato da tragiche ed improvvise epifanie, talaltra da incredibili siparietti patafisici (vedi l’intero distretto di polizia impegnato in un’idiotissima messinscena sulla cristologica Passione, oppure ad inneggiare: “Fascism! Fake news! Fascism! Fake news!”).

Come si è visto, non manca nemmeno l’elemento magico, di stampo dichiaratamente jodorowskiano (che Refn considera un maestro), che irrompe prepotentemente verso la fine. E nemmeno stupisce più, avendo Refn ribaltato qualsiasi stereotipo crime nel corso degli episodi, creando una serie che, invece di fare del movimento incalzante la sua cifra stilistica, abbraccia con forza una filosofia della sospensione, dell’immobilità, della stasi.

Too Old to Die Young estremizza la rarefazione del tempo e dello spazio. Le azioni e i dialoghi sono dilatati in modo ossessivo, come se la pellicola scorresse tra le sabbie mobili. Suoni alienanti e musica, ora ammaliante ora dissonante, contribuiscono a questa iperbolica estetica dell’astrazione onirica. Dando vita ad un superbo abisso che rappresenta l’apice, decisamente indigesto, di tutto il cinema refeniano. 

Attrici ed attori si muovono perfettamente in questo palco sospeso tra tangibile e metafisico, con un’espressività straniante e minimalista che talvolta trascende in una sorta di iperrealismo soprannaturale.

Too Old to Die Young – #byNWR

#byNWR – compare, a caratteri acidi e cubitali, alla fine di ogni capitolo. A ribadire il grado di originalità espressiva e stilistica raggiunto da Refn, autore controcorrente come pochissimi (Noè, Von Trier) nel nostro cinema. 

Too Old to Die Young non è tanto una serie televisiva, è piuttosto un’opera immensa, unica, assoluta. Avvicinabile forse solo alla terza, clamorosa stagione di Twin Peaks che Lynch aveva pubblicato due anni prima, nel 2017. Anche lì, un unico grande film (in 17 parti). Anche lì, lo stesso autore – e un controllo totale – per tutti gli episodi. 

Quella di Refn è un’opera che non cerca in alcun modo di conquistare lo spettatore, ma che pretende di essere conquistata. 

Se l’arte stessa non è che un atto di violenza, allora questa è una pura opera d’arte.

E bisogna davvero sudarsela, questa opera d’arte di pura violenza.

Un’altra opera d’arte totale: la terza stagione di Twin Peaks

Twin Peaks 3: ritorno al cuore di tenebra, senza nostalgia

Tags: ossessione e inquietudineToo Old To Die YoungTwin Peaksviolenza
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