Partiamo con una notizia sul futuro. The White Lotus, di cui è appena finita la terza stagione, era nata per essere una mini-serie conclusa. Ma l’enorme successo del primo capitolo, nel 2021, ha subito portato alla scelta di trasformarlo in una serie antologica. In cui ogni stagione presenta nuovi personaggi e nuove storie, ambientate in strutture diverse della eponima catena di resort. E il futuro? Eccolo: una quarta stagione è già stata annunciata.
La serie HBO è una dark comedy (progressivamente più drammatica) radicalmente satirica, e racconta una settimana nella vita di un variegato gruppo di ospiti di un lussuoso resort, il White Lotus del titolo, e dello staff che se ne prende cura. Prima alle alle Hawaii, poi in Sicilia, infine in Thailandia.
The White Lotus è serie profondamente autoriale. La stessa mente, quella di Mike White, ha creato lo show ma soprattutto scritto e diretto tutte e 21 le puntate di cui si compongono le 3 stagioni fin qui andate in onda (e che in Italia sono su Sky e Now). In precedenza, White aveva scritto per il cinema (School of Rock). E in tv aveva creato nel 2012, assieme alla protagonista Laura Dern, lo show Enlightened (portato in Italia da Sky).
Nelle sue due prime stagioni, The White Lotus ha vinto la bellezza di 15 Emmy (tra cui i più pesanti nel 2022, e diversi minori nel 2023) e 2 Golden Globe. Ma, premi a parte, ecco qua le ragioni sintetiche per correre a guardarla se non lo avete mai fatto: una scrittura chirurgica e crudele; una messa in scena perfetta; un cast strepitoso; alcuni dei migliori personaggi emersi nella tv degli ultimi anni; un’ambizione allegorica e uno sguardo sull’umanità che sarebbero piaciuti a Sartre. Niente meno!
The White Lotus, la folgorante stagione 1
Con un artificio divenuto ormai così frequente da risultare stucchevole, ma qui per una volta pienamente giustificato, il racconto inizia dalla fine, con un preambolo. Nella prima scena della prima stagione (qui il podcast) troviamo un gruppo di passeggeri all’aeroporto, in attesa di tornare in America. Viene menzionato il White Lotus, “quel resort dove c’è stato il morto”. Vediamo una bara che viene caricata sull’aereo.
“Una settimana prima”, ed eccoci all’inizio delle vicende che verranno narrate: una barca si avvicina all’imbarcadero di un lussuoso resort hawaiano. Sul pontile, schierati in sorridente attesa, sono i membri dello staff del White Lotus: capitanati dal servizievole Armond (Murray Bartlett), direttore del posto che sfoggia baffi e camicie hawaiane come un Magnum P.I. più elegante. Accolgono i personaggi che la barca scarica nella struttura, e nella nostra storia: clienti facoltosi venuti a divertirsi – più o meno.
Ci sono le ragazze che si professano idealiste e impegnate (Sydney Sweeney e Brittany O’Grady); la grande imprenditrice ossessionata dal lavoro e dal controllo (la sempre ottima Connie Britton); il di lei marito in perenne crisi d’identità (il divertente Steve Zahn). O la coppia appena maritata: lui ricco (Jake Lacy), lei no (Alexandra Daddario) – con la madre del neo sposo che si presenta nel bel mezzo della luna di miele. O l’alcolizzata donna in là con gli anni (Jennifer Coolidge) che si porta dietro le ceneri della madre, da cui non riesce a staccarsi.
Tutti americani assai ricchi venuti a passare 7 giorni di relax e detox nel “più romantico albergo delle Hawaii”. Moderno e lussuoso edificio sulla spiaggia, dotato di tutti i comfort. Che però presto mostra di essere meno glamorous delle attese. A ricordarci che sotto l’apparenza del paradiso sulla terra ribollono, minacciose, le acque scure dell’inferno.
Un’umanità orrenda, un paradiso che assomiglia all’inferno
Vediamo in azione un meccanismo narrativo e drammaturgico che si ripeterà nelle tre stagioni. Giorno per giorno del suo racconto, e puntata per puntata, The White Lotus mostra un lato crescentemente oscuro. Lo fa la serie, lo fanno gli ospiti, lo fa il personale. E persino la stessa struttura ricettiva comincia a sembrare meno attraente di quanto all’inizio fosse apparsa. Più che una cartolina, è come una di quelle foto in cui ti accorgi, guardandole bene, che è finito nell’inquadratura un dettaglio disturbante. Qualcosa che non ci doveva essere.
L’umanità venuta al White Lotus in vacanza è il peggio del peggio. Ma senza bisogno di essere grottesca. O eccessiva. Ricchi un po’ annoiati e un po’ blasé, con i loro problemi ombelicali. Poi li guardi più da vicino, e ti accorgi che sono una manica di stronzi. Gente proprio brutta. Tutti. Vecchi e giovani.
Ma è un problema solo dei ricchi bianchi? No. Non cambia nulla se si guarda ai “servitori”. In tutte e tre le stagioni, i vari personaggi (direttori di struttura, massaggiatrici, inservienti, guardie di sicurezza) non si dimostrano migliori dei “padroni”. Furbi, opportunisti, disonesti, miseri, meschini. Comunque sempre interessati. E sempre disposti a sacrificare ciò in cui credono per inseguire una opportunità .
Sono tutti uno peggio dell’altro. Tutti convinti di avere diritto alla felicità che li elude, o al desiderio del momento. Tutti animati da una perenne insoddisfazione, tutti pronti a recriminare. E nessuno davvero diverso dagli altri, in una storia fatta tutta e solo di personaggi problematici, per una ragione o per l’altra sgradevoli.
E il posto? Si presenta come un paradiso ma gratta gratta è un mezzo inferno, seppur di lusso. Il resort dovrebbe essere il più top del top: ma troppo spesso le camere non sono come dovrebbero, il cielo è grigio, il mare mosso e senza pesci da ammirare. In compenso c’è il costante apparato dell’accoglienza turistica, pacchiano e debordante. I finti ornamenti e le cerimonie “tradizionali”, il finto indigeno che suona la conchiglia per chiamare gli ospiti alla cena (stagione 1), le musiche folcloristiche e le attività tipiche (stagione 2), i danzatori in costume (stagione 3).
E l’alcool a fiumi a cercare di compensare tutto il resto.
The White Lotus 2: Dolce Vita, esistenza amara
Dopo il successo della prima stagione ambientata alle Hawaii, The White Lotus si sposta in Sicilia, terra di sole, storia millenaria e desideri sotterranei. La seconda stagione (qui il podcast), andata in onda nel 2022 e composta da 7 episodi, conserva la struttura antologica e l’impostazione “gialla” della serie. Anche qui una morte misteriosa – in cui scopriremo l’identità della vittima solo alla fine – apre e chiude il racconto. Mentre i sette episodi ci portano a conoscere un nuovo gruppo di turisti ospiti del resort White Lotus, stavolta affacciato sul mare di Taormina.
Rispetto all’impianto più “sociale” della prima stagione, qui il focus si sposta sull’erotismo, sulla sessualità e sul potere che ne deriva.
I personaggi sono tratteggiati con la consueta precisione crudele: tra loro, due coppie americane – una idealista, l’altra più disillusa e materialista – che si confrontano con le proprie insicurezze e gelosie. C’è anche una famiglia siculo-americana formata da tre uomini di tre generazioni, alle prese con fantasmi familiari e irrisolti rapporti con le donne. Attorno a loro si muovono escort, manager d’hotel, concierge, tutte figure che osservano, giudicano, sfruttano e a loro modo manipolano gli ospiti.
Il cast, impeccabile, vede il ritorno della magnifica Jennifer Coolidge nel ruolo di Tanya, unico legame diretto con la prima stagione. E introduce attori come Aubrey Plaza, Michael Imperioli, F. Murray Abraham, Meghann Fahy, Theo James, e le italiane Sabrina Impacciatore e Simona Tabasco.
L’ambientazione siciliana, sfruttata con intelligenza e ironia, amplifica il contrasto tra bellezza e decadenza, tra mito e ossessione. Il Mediterraneo di White è seducente e inquieto, carico di desideri repressi e di un passato che riemerge, tra statue classiche, stanze d’hotel e terrazze barocche. Un nuovo “paradiso” in cui l’Occidente va in vacanza per perdersi ancora una volta.
La stagione 3 di The White Lotus: verso Oriente
Dopo le Hawaii e la Sicilia, The White Lotus approda in Thailandia, terza tappa di un viaggio che è insieme geografico e spirituale. La serie antologica creata da Mike White continua a raccontare il privilegio e l’ipocrisia del mondo occidentale attraverso lo specchio deformante del turismo di lusso.
Nel nuovo ciclo – uscito a febbraio 2025 e composto di 8 episodi – tornano vecchi volti come Belinda (Natasha Rothwell, la massaggiatrice che in stagione 1 sognava di aprire una sua SPA) e l’ambiguo Greg (Jon Gries), ex marito di Tanya, unica figura ad attraversare tutte le stagioni fin qui. Affiancati da un cast ancora più notevole, che include nomi come Jason Isaacs, Michelle Monaghan, Carrie Coon, la fantastica Parker Posey (musa del cinema indie anni ‘90), guest star di peso come Sam Rockwell e John Glenn, e la reginetta del K-pop Lisa (la thailandese Lalisa Manobal, al suo debutto su schermo).
Come nelle stagioni precedenti, si riparte da un evento violento (qui, una prolungata sparatoria che semina il panico nel resort) e si torna indietro per ricostruirne le cause. Mentre la narrazione alterna cinismo, grottesco e malinconia. E ancora una volta il resort, cornice patinata e asettica, si trasforma in teatro delle contraddizioni umane. Tra famiglie opulente sull’orlo di perdere tutto, vecchi ricconi con giovani amanti, figure ferite in cerca di un’impossibile redenzione, impiegati che inseguono la grande occasione.
Il creatore Mike White ha dichiarato che questa stagione è “una riflessione più ampia sulla spiritualità e la religione orientale”, con il tono satirico e sofisticato che ha reso la serie un successo mondiale. The White Lotus prosegue la sua indagine sulle ansie contemporanee, mettendo in scena il conflitto tra opulenza e senso di colpa, desiderio e frustrazione, edonismo e vuoto esistenziale.
L’inferno sono gli altri, ci ha insegnato Sartre
Ed eccoci a una delle ragioni, la più meta-televisiva, per cui The White Lotus mi è piaciuta così tanto. È per una profondità e radicalità nel descrivere l’umanità e la nostra società della perenne recriminazione, capace di generare molteplici livelli di lettura, che a me ha ricordato un’opera molto precisa. A porte chiuse, opera teatrale di Jean Paul Sartre del 1944. Il grande filosofo esistenzialista francese condensò in questo famoso atto unico un bel po’ dei temi della sua riflessione intellettuale.
È in quest’opera che si trova la frase forse più famosa del pensatore: “L’inferno sono gli altri”. Nell’opera teatrale tre personaggi si trovano in una stanza chiusa e senza finestre. Quando capiscono che è l’inferno, i personaggi si aspettano di essere torturati, ma nessuno più entra nella stanza: i torturatori sono loro, l’uno dell’altro. Con la loro semplice presenza, con i commenti, con le domande che impediranno a ciascuno di dimenticare perché sia finito appunto all’inferno. O semplicemente con il loro sguardo.
Perché lo sguardo dell’altro, ci dice Sartre, ci giudica, ci denuda, ci fa soffrire. E noi esistiamo solo attraverso gli altri, i loro giudizi, la loro percezione di noi che ci definisce. Appunto: l’inferno sono gli altri. Verso la fine del dramma scopriamo che la porta della stanza è sempre stata aperta, ma ormai è troppo tardi per uscire: tutti i personaggi sono per sempre imprigionati nella rete di rapporti che hanno creato gli uni con gli altri.
In un certo senso, è quanto accade alla fine di ogni stagione The White Lotus. L’apparente lieto fine (diciamo: l’aver evitato la morte) che sembra premiare alcuni personaggi è un lieto fine sotto l’ombra della morte: disturbante e macabro, e appunto solo apparente. Chi se ne va dal resort lo fa senza aver davvero risolto o riconciliato nulla: ma avendo piuttosto ingoiato, e nascosto in sé, il proprio pezzetto di personalissimo inferno, da portarsi dietro per sempre.
Al punto, vien da dire, che non sarebbe troppo tirata per i capelli una lettura metafisica spinta del tipo “tutti i personaggi sono morti, e il White Lotus è il centro di smistamento dell’inferno”. Sto scherzando, ma non troppo.
Ritmo, scrittura, messa in scena perfetti (e la musica!)
Le buone ragioni per guardare The White Lotus dovrebbero a questo punto risultare, anche per chi legge, più d’una. Ne aggiungo alcune, anche per meglio sottolineare la forza davvero notevole di questa brillante produzione HBO.
Se superate le prime puntate di ogni stagione, preparatorie e che possono sembrare lì per lì quasi incerte nel tono, o persino inconcludenti, vi ritrovate in un racconto perfetto. In cui le dinamiche sviluppate sono tutte indispensabili – e porteranno frutti, naturalmente avvelenati. L’ideazione degli attriti e dei conflitti è impeccabile e feconda, e assicura sviluppi sempre formidabili. La caratterizzazione dei personaggi efficacissima, e sapiente la scelta di cosa ciascuno rappresenti in termini socio-culturali.
La scrittura – sempre ritmata, serrata, implacabile – lega ogni cosa, come l’onnipresente colonna sonora: anch’essa tutta ritmo, ossessiva, parodisticamente “esotica”. E ovviamente capace di riflettere lo specifico dei tre luoghi – e delle tre culture – in cui le diverse sttorie si ambientano. Peccato che il compositore, Cristobal Tapia de Veer, abbia annunciato una rottura apparentemente insanabile con il creatore e showrunner, White: non sarà lui a musicare la stagione 4.
E c’è persino, a ben vedere, una dinamica trasformativa tra le tre stagioni di The White Lotus. La prima ha i toni della commedia dark, grottesca. La seconda accentua i tratti nervosi, disturbanti. La terza è immersa in una crescente cupezza.
In The White Lotus si ride. A volte di gusto, a volte amaro. A volte in modo sorprendente: di malattie, morte, ossessioni, dipendenze, sentimenti, degenerazioni e perversioni. Non è per tutti i gusti, e in tutte le stagioni ci sono elementi che potranno sconcertare qualche spettatore (dal sottofinale scatologico di stagione 1 al sostanziale e chiacchieratissimo incesto di stagione 3). Ma anche l’eccesso qui non è mai gratuito.
Tre straordinari personaggi: Armond, Tanya, Rick
E questo anche grazie ad alcuni dei personaggi più belli della tv degli ultimi anni. A noi tre sono entrati nel cuore, uno per ciascuna delle stagioni di The White Lotus. Il direttore del resort Armond, interpretato da uno spettacolare Murray Bartlett nella stagione 1. L’alcolizzata e noncurante miliardaria Tanya di Jennifer Coolidge, nel ruolo che ne ha fatto una star dopo anni di anonimato (stagione 1 e ancora di più 2). E, nella stagione 3, il bellissimo e un po’ struggente personaggio di Walton Goggins, Rick, un uomo duro e misterioso, con un conto in sospeso con il mondo, in viaggio con la sua giovane fidanzata Chelsea.
Non è un caso che questi tre personaggi conoscano parabole per certi aspetti simili – e in un certo senso condividano un destino. Di nuovo, con una progressione tra le stagioni che sembra riflettere una precisa scelta autoriale: più grottesco Armond, più disturbante Tanya, più disperato Rick.
Mi permetterete però di celebrare il primo: Armond, il motore della stagione 1 di The White Lotus. Si presenta come un normalissimo e servile maitre, preoccupato solo del benessere dei suoi ospiti; ma scopriamo presto che li disprezza profondamente. L’ammaliante, sorridente, luciferino Armond è quasi il direttore di una prigione folle e inconsapevole: una prigione per persone che non sanno di essere prigioniere. Lui compreso.
A lui la serie affida alcune battute chiave, quelle che permettono di accedere ai livelli più profondi di lettura di una dark comedy che satireggia l’umanità con radicalità pari al suo garbo e all’apparente leggerezza. “Vederli mangiare ogni sera mi fa venire voglia di strapparmi i bulbi oculari”, commenta osservando il rito della cena degli ospiti. “Loro sfruttano me, io sfrutto te”, dice a un collaboratore.
The White Lotus: tre stagioni, tre sguardi, un’unica feroce eleganza
Nelle sue tre stagioni, The White Lotus ha messo in scena un’umanità opulenta, fragile e profondamente inconsapevole. Un’umanità occidentale che attraversa il mondo con l’arroganza di chi pensa di meritare tutto. E lo ha fatto con uno sguardo ogni volta diverso ma coerente: più sociale nella prima stagione, più erotico nella seconda, più spirituale nella terza. Tre declinazioni di una stessa domanda: cosa succede quando il privilegio si confronta con i propri limiti?
L’isola hawaiana della stagione uno era un microcosmo in cui tensioni di classe, razza e genere emergevano sotto la superficie dell’ospitalità di lusso. La Sicilia della seconda stagione amplificava il desiderio, i corpi, la gelosia e la colpa, dentro un’atmosfera barocca e sensuale. La Thailandia della terza, infine, ha messo in discussione il bisogno di redenzione e l’appropriazione culturale occidentale del sacro, mostrando un’umanità in cerca di senso che consuma la spiritualità altrui come l’ennesima esperienza da vivere, postare e dimenticare.
In tutte le stagioni, l’approccio è lo stesso: satirico, elegante, affilato. Mike White costruisce con cura un universo in cui l’umorismo è uno specchio deformante, ma fedelissimo, della nostra contemporaneità. La vacanza diventa dispositivo narrativo perfetto: luogo di sospensione dove le maschere possono (devono) cadere, e dove il vero volto dell’“élite globale” si mostra in tutta la sua inconsistenza morale.
Alla fine, ciò che The White Lotus ci restituisce è una disamina spietata e lucidissima di un’umanità viziata, convinta di essere sempre in diritto. Di tutto, di avere tutto, di possedere tutto. Gli spazi e le tradizioni degli altri, la bellezza e la magia del mondo, i corpi e lo spirito.
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