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Copenhagen Cowboy: un’eroina ultrapop tra tristissimi maschi

La seconda fatica seriale di NWR, dopo Too Old to Die Young, è un’opera eccezionale, alla ricerca dell’assoluto filmico

di Livio Pacella
14/09/2023
in Articoli, Artwork
Cover di Copenhagen Cowboy per Mondoserie
173
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Copenhagen Cowboy (Netflix, 2022) è l’ultimo gioiello seriale di NWR (Nicolas Winding Refn. Serie, ça va sans dire, fortemente autoriale, presentata in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, che segna il ritorno di Refn nella natia terra danese. Sempre a Venezia, Refn si riferisce a Copenhagen Cowboy come ad una sorta di omaggio a se stesso e alla sua sublime e prepotente rivoluzione cinematografica: Pusher, Bronson, Valhalla Rising, Drive, Only God Forgives, The Neon Demon…

Divisa in sei spiazzanti e magnifiche puntate, per una visione totalizzante della durata di poco più di cinque ore, questa è la seconda opera seriale di Refn. Dopo il suo sconvolgente debutto americano: Too Old To Die Young (di cui abbiamo scritto qui).

Protagonista assoluta di questo lunghissimo e fiabesco revenge movie è l’eterea, minuta ed androgina Miu (Angela Bundalovic). Essere magnetico e misterioso dalle oscure origini, magico e silenzioso enigma forse umano, forse alieno, forse divino. Strega o extraterrestre che sia, la ragazza viene venduta come portafortuna a Rosella (Dragana Milutinovic), zingaresca matrona albanese che gestisce un bordello assieme al fratello André (Ramadan Huseini), nella periferia di Copenaghen. 

Con la sua sola presenza, Miu fa rifiorire magnificamente il giardino dell’infernale villetta. Infernale perché le giovani immigrate che vivono in cantina, attirate in Danimarca con l’inganno, altro non sono che schiave costrette a prostituirsi con la violenza nello squallido capannone di André. Rosella, nonostante l’età avanzata, pretende che Miu le faccia avere un figlio. Non essendo rimasta incinta dopo pochi giorni, la vecchia strega – che vorrebbe cuocere Miu a fuoco lento in un pentolone – si convince a cedere la giovane vergine all’impresa bordello del fratello.

Mistica pop tra Jodorowsky e Tarantino

Questo l’incipit di una fiaba dannatamente nera, fatta di magia, violenza e vendetta – secondo lo stile unico, ipnotico ed assolutizzante di NWR – in una Copenaghen popolata da gangster cinesi, spacciatori slavi, streghe, vampiri, e tanti maiali (in senso figurato e non). 

Maestro nel destrutturare generi e topoi cinematografici – in questo caso il noir, il western, i film d’arti marziali, l’horror, la fantascienza… –  lo stesso Refn non ha mai avuto problemi a dichiarare le sue fonti e le sue fascinazioni. Come sempre, almeno da Drive in poi, aleggia potente l’ombra di Jodorowsky nei riferimenti sfacciatamente simbolici di caratteri e situazioni. Colpisce poi in modo particolare il parallelo tra Miu e La Sposa tarantiniana di Kill Bill interpretata da Uma Thurman: a partire dall’outfit (blu per la prima, giallo per la seconda) per arrivare al kung-fu, sublimemente praticato dall’eroina di Copenhagen Cowboy. 

Un’eroina dapprima superstizioso oggetto di timore e venerazione da parte di un clan albanese, in seguito alle prese con un boss malavitoso cinese e un vampiresco serial killer, e per finire coinvolta in una guerra tra bande per il controllo del traffico di droga. Tra glaciali grattacieli e l’underground criminale della capitale danese… Come dire – c’è del marcio in Danimarca.

In questa delirante odissea tra personaggi fantastici e plateali simbolismi – la serie è ad esempio popolata da maiali che divorano cadaveri e da esseri umani che grugniscono – l’esile e gracile Miu distribuisce in maniera del tutto arbitraria fortuna e sventura intorno a sé. 

Copenhagen Cowboy: Miu vs. Rakel (per tacere dei Giganti)

Miu crea e distrugge, con la stessa facilità. E con la stessa disarmante facilità è considerata un portafortuna, capace però di decretare la morte con il solo sguardo. Questa la convinzione di Milos, l’avvocato della malavita interpretato da Zlatko Burić, lo storico attore della trilogia di Pusher, primo grande successo danese di Refn risalente a 17 anni prima. 

Quando, nel finale sospeso di questa prima stagione, un terrorizzato Milos chiede consiglio ad un amico giapponese (un cameo di Hideo Kojima, amico di Refn e amatissimo creatore di videogame autore di Metal Gear e del recente Death Stranding, in cui fa un cameo lo stesso NWR), questi gli risponde enigmaticamente che non gli rimane altro da fare che rivolgersi ai Giganti…

Miu è un talismano, uno spettro, un alieno, una vergine, una spacciatrice. Miu – il cui nome viene dalla linea di borse Prada Miu Miu – è soprattutto una sorta di mistica avenger (vendicatrice) ultrapop. “Il desiderio di vendetta è innato in ogni generazione, e ovviamente questa serie è destinata alla generazione di cui fanno parte anche le mie figlie e che credo sia alla ricerca dei propri eroi” (NWR). 

La sua mise da supereroina (tuta blu con sneaker e piumino dello stesso colore) ha, nell’episodio finale, il suo corrispettivo in rosso – indossato da Rakel, la nemesi di Miu (interpretata da Lola Corfixen, figlia dello stesso regista e della coproduttrice Liv Corfixen).  

Le due sono personificazioni opposte e speculari della potenza femminile. Rakel possiede terribili poteri demoniaci. D’altro canto, Miu si riunisce nel bosco a tutte le vittime di Niklas, vestite esattamente come lei. L’esito di questo epico scontro, assieme alla misteriosa questione dei Giganti, è rimandato ad un’eventuale seconda stagione.

Un cowboy femminile tra tristissimi maschi (per tacere dei maiali)

Rakel, anch’essa dotata dunque di poteri sovrumani, è stata appositamente resuscitata per l’occasione – ancora una volta la vendetta – da Niklas. Il suo gemello vampiro. Così, in una chiave squisitamente dark e fiabesca, questa sembra una vampiresca Bella Addormentata. Così come l’altra richiama, anche fisicamente, un’ultramoderna Biancaneve. Di più: proprio come in Biancaneve Niklas incarica un cacciatore di procurargli un cuore umano per rimettere in forze la sorella.

Il giovane e biondo maniaco omicida viene lasciato in pasto ai maiali, e il suo personaggio richiama così quello di Mason Verger (e anche lui aveva una sorella gemella) della serie Hannibal (di cui abbiamo anche parlato nel podcast). Questo vampiresco omicida seriale è il figlio viziato di un’aristocratica coppia di psicopatici. Il padre, egomane assoluto, non parla d’altro che del proprio mostruoso pene, sommo e tangibile segno del potere divino in terra. Esilarante ed emblematica al contempo la scena nella quale questi, in seguito alla disperante mutilazione di Niklas (evirato dai porci) disquisisce, assieme a tre non meglio precisati esperti – uno è lo stesso Refn, che annuisce seriosamente – sulla necessità di ricreare per il figlio una protesi genitale: un fallo “più duro, più forte, più grande, più potente, più fantasioso”… (sic).

Padre e figlio sono due rappresentanti di una lunga teoria di uomini ridicoli, repressi, esasperati. Il gangster cinese sopraffatto dalle emicranie, il trio di imprenditori impediti come scolarette davanti all’acquisto e al successivo uso di cocaina, il pappone albanese che si pavoneggia in banalissimi video rap, il maialesco marito fantoccio di Rosella… 

In Copenhagen Cowboy i maschi sono semplicemente tristi e patetici. L’unico vero cowboy qui è Miu – che non usa però le pistole ma solo il kung fu.

Copenhagen Cowboy: esperienza unica, intensa, quasi insopportabile (e imperdibile)

Il kung fu di Miu sembra l’aggraziata ed affascinante danza (Angela Bundalovic è attrice e ballerina) di un piccolo e letale colibrì. Il principale combattimento di arti marziali – Miu contro il boss cinese – sublima in una sinfonia allucinogena, un’atmosfera straniante ed assordante con l’apporto di un continuo rimbombo stroboscopico di neon ora blu intenso ora ultravioletti… Questa la ricorrente gamma cromatica di Copenhagen Cowboy.

Ricordiamo che alcuni daltonici non distinguono proprio i toni che vanno dal blu al violetto e che lo stesso Refn si dichiara daltonico (NWR adora stupire e provocare anche durante le conferenze stampa). Ma il senso di questo suo millantato daltonismo, come spiega il regista danese, è la sua generale incapacità a riconoscere i mezzitoni. Questo il motivo per cui le sue visioni pittoriche sono dominate da colori così violenti. Anche se in sostanza la violenza domina ogni aspetto dell’opera di NWR.

Zingari, neri, asiatici, balcanici – e giusto un paio di danesi: la Copenaghen di Refn è un degradato girotondo di nazionalità, unite tutte solo e soltanto dall’ultraviolenza alla Arancia Meccanica di kubrickiana memoria. La violenza dell’immaginario refniano spalanca veri e propri abissi di vuoto e bellezza, attraverso visioni sonore e – si passi il gioco – sonorità visive perverse e allucinanti. La colonna sonora è ancora una volta firmata da Cliff Martinez – assieme a Peter Peter, Peter Kyed e Julian Winding (nipote del regista) – libero come non mai di assordare e mesmerizzare lo spettatore tramite sintetizzatori cupi e serpentini.

Così Copenhagen Cowboy è tutto un gioco di percezioni che si sviluppano a diversi stadi di coscienza, a seconda di quanto ci si lasci sprofondare nel cupio dissolvi refniano di canoni e significati, in questo strabiliante monstrum audiovisivo.

L’intrattenimento generalizzato delle piattaforme streaming è giocoforza costretto ad ignorare la visceralità autoriale e il coraggio di portare alle estreme conseguenze una peculiare poetica, a rischio di divenire incomunicabili. NWR è una felice e luminosa eccezione in questo panorama sempre più appiattito dalla logica di mercato e dagli algoritmi di personalizzazione preferenziale.

Copenhagen Cowboy è quindi libertà espressiva, amore ed iperviolenza, fascino e repulsione, ossessione estetica maniacale, e soprattutto – esperienza unica, intensa, quasi insopportabile. Ed imperdibile (ce ne fossero)… 

Ma ci vogliono, per così dire, un appetito eccezionale… e un fisico bestiale.

La precedente serie-capolavoro di NWR: Too Old to Die Young

Too old to die young – un capolavoro insostenibile

Tags: Copenhagen CowboyDanimarcaeroefantasticosoprannaturalevendettaviolenza
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